Nel nostro Pratomagno, come in tutte le zone montuose d’Italia, l’evoluzione linguistica e la perdita delle antiche tradizioni, causa l’isolamento viario e commerciale di un tempo, sono state più lente che nel fondovalle e fino a metà del secolo scorso vi erano nel linguaggio comune dei montanari parole arcaiche che non venivano più usate da tempo indefinito. Questo era un retaggio di quella civiltà montanara che da secoli era vissuta abbarbicata nei piccoli borghi montani, pur mantenendo frequenti contatti con la zona della Setteponti. Con lo spopolamento della montagna sono scomparse velocemente mentalità, credenze, abitudini e tante attività lavorative. Ѐ diventato sempre più sbiadito un patrimonio di conoscenze, tanto che oggi solo pochi anziani sono in grado di ricordare antiche usanze e riconoscere un attrezzo o un utensile della vecchia “civiltà del castagno”, descriverne l’impiego e ricordarne il nome. Vi erano oggetti in uso da secoli da chi tutti i giorni doveva misurarsi con la fatica di produrre con le sole mani e l’ausilio di qualche modesto strumento, il proprio e altrui sostentamento. Tutti gli arnesi che venivano impiegati, in genere erano costruiti dal montanaro stesso, eccetto le parti in ferro, le quali per ragioni economiche erano conservate con cura e trasmesse di generazione in generazione, fino all’usura. Finite le tradizioni e scomparsi gli attrezzi, stanno svanendo dalla nostra memoria e dalla nostra lingua anche i loro nomi. Ѐ una perdita culturale perché il passato si ricostruisce in parte anche conoscendo le antiche parole, le vecchie tradizioni e gli oggetti usati per lavorare e vivere; il passato è importante perché è sempre carico di storia ed è servito a trasmettere il sapere e un linguaggio da una generazione all’altra. Vediamo ora esempi di antiche parole, tradizioni scomparse e un vecchio, allora utilissimo, strumento di lavoro:
Vento Rovaio: Questa espressione, oggi completamente scomparsa, l’ho sentita da piccolo (anni ‘50 del secolo scorso) dalla gente che abitava la zona di Oliveto, Querceto e Odina, considerati allora insediamenti di montagna, con un modello di vita, di agricoltura, di architettura, di tradizioni e linguaggio più legati alla gente del Pratomagno che a quella della Setteponti.
Era un’espressione usata spesso da mia nonna, dai miei zii che abitavano appena sotto Oliveto e dalle donne di Odina e del Valcello che la domenica mattina venivano alla prima Messa a Persignano alle 6,30 facendo, fra andata e ritorno, più di due ore di cammino a piedi. Sicuramente penso che altre persone del luogo, oltre a mia nonna, agli zii e alle donne di Odina, avranno usato gli stessi termini in certe occasioni. In sintesi, nel Cocollo, lato Setteponti, nel linguaggio corrente usato dagli abitanti fino a metà del secolo scorso, che non era altro che il linguaggio usato in tutta o in gran parte della nostra montagna, erano rimaste alcune espressione arcaiche non più in uso da altre parti.
Quelle parole (vento rovaio) che da ragazzo forse inconsapevolmente avevo relegato e tenuto in qualche angolo remoto della mia mente in attesa di una spiegazione, dopo tanti, tanti anni tornavano fuori nell’ottobre 2017 durante una bella escursione in Garfagnana alla vetta della Penna di Sumbra. Il merito fu di una giovane signora che raccoglieva le castagne dicendomi che i ricci erano stati gettati a terra dal vento rovaio, che è quello che spira impetuoso, fa sparire le nuvole e viene di là (nord). Intuii subito che il vento rovaio era il vento di tramontana.
Volli andare a fondo alla questione e ho appreso dal vocabolario Treccani che “rovaio”, deriva probabilmente dalla parola latina “borearius”, der. di boreas (borea), rifatto secondo rovo (perché pungente) – vento di montagna. Molto probabilmente dal latino ventus borearius e poi boreario, per un processo di mutamento fonetico (metatesi) si è passati a rovaio. Quindi il vento rovaio sta ad indicare il vento freddo e pungente di tramontana come sono pungenti i rovi. Il termine rovaio indicativo di un tipo di vento, si trova in degli scritti di Boccaccio ed Ariosto e, se pensiamo che Giovanni Boccaccio è vissuto nel secolo XIV, si capisce che questo termine è molto arcaico. Penso che in una catena montuosa appenninica e preappenninica come quella che va dalla nostra zona in Garfagnana, che il regresso di un fenomeno linguistico non avviene in maniera omogenea e compatta, ma si lascia dietro delle sacche isolate di conservazione, dove ancora si usano le parole antiche. Fino a metà del secolo scorso la nostra montagna presentava una situazione linguistica che non aveva rotto tutta la continuità col passato, rottura che poi è avvenuta successivamente con la fine della “civiltà del castagno”. In Garfagnana, o meglio in alcune zone della Garfagnana, questa continuità linguistica con il passato in parte continua ancora.
Molenda: La storia della vita dei mulini attraverso i secoli è di una complessità enorme, in quanto vi erano centinaia di leggi e disposizioni locali che ne regolavano l’attività.
Essendo opifici indispensabili e strategici e quindi rappresentanti di un patrimonio economico rilevante, anticamente i proprietari di gran parte dei mulini erano solo gli enti religiosi, le casate nobili o le Comunità pubbliche che con appositi bandi li davano in affitto (a livello) per un certo tempo ad un gestore, anche se con il passare dei secoli, soprattutto dal secolo XIX diventarono privati sempre in numero maggiore. L’importanza di questi opifici era dovuta al fatto che il mulino macinava e macina ancora il grano da cui veniva e viene ricavata la farina per fare il pane, l’alimento base del popolo; nella nostra montagna, essendo il grano poco coltivabile per la natura del terreno, al mulino venivano portate a macinare soprattutto le castagne secche, la cui farina, chiamata farina dolce sostituiva in parte o completamente la farina di grano. Il gestore del mulino veniva pagato per la macinazione e il pagamento si chiamava molenda, ma essendo la circolazione monetaria molto modesta, chi portava cereali al mulino pagava il lavoro di macinatura in natura con una quota parte di cereale, prelevata dal mugnaio prima della macinazione, Il termine molenda deriva dal verbo latino molére ( macinare). La molenda corrispondeva nei secoli passati quasi ovunque ad un prelievo di grano, di altri cereali e di castagne intorno al 6% della quantità totale da macinare e questa quota, dal medioevo è arrivata per lo più intatta fino al secondo dopoguerra. La farina ottenuta dal mulino per macinazione del grano, una volta portata a casa doveva essere passata da uno staccio per eliminare la crusca. Le famiglie più numerose avevano un attrezzo manuale che si chiamava “buratto”, ma chiamato soprattutto “frullone” e questa operazione, che facevano essenzialmente le donne, si chiamava “abburattatura”. Da sempre il frullone compare nello stemma della prestigiosa Accademia della Crusca.
Per l’importanza del proprio lavoro, il mugnaio era considerato dal popolo una figura socialmente molto elevata.
Un momento critico per i mulini e i mugnai avvenne poco dopo l’unità nazionale, quando fu imposta dal 1 Gennaio 1869 dal Parlamento la legge che istituiva la “tassa sul macinato”; scopo di questa imposta, che fu chiamata “tassa sulla povertà”, fu quello di contribuire al risanamento delle finanze pubbliche. Il principale fautore di questa legge si chiamava Quintino Sella, che qualche anno prima, nel 1863, aveva costituito a Torino il Club Alpino Italiano. Fu una legge contrastata dal popolo che portò ad un aumento considerevole del prezzo del pane, ci furono sommosse, dimostrazioni in tutta Italia con oltre 250 morti e migliaia di feriti e arresti, tanto che dovette intervenire l’esercito per ristabilire la calma. Questa tassa era un’imposta indiretta e lo Stato si fece carico di istallare in ogni mulino un contatore meccanico che conteggiava i giri effettuati dalla ruota superiore, che era e rimane ancora quella girante. La tassa veniva così calcolata in base al numero dei giri, che dovevano corrispondere alla quantità di cereale macinato. Questo metodo di conteggio risultò molto approssimativo e creò grossi problemi perché tante erano le variabili tecniche da mulino a mulino. Questo stato di cose creò furiosi contrasti fra clienti, mugnaio e fisco ma in effetti, chi poi alla fine ci perdeva sempre era il cliente, su cui gravava l’intera quota della tassa; anche la figura del gestore del mulino, preso fra l’incudine e il martello, uscì danneggiata, tanto che venne fuori allora l’immagine del “mugnaio ladro”, doppiamente, sia per il fisco che per il popolo. Il tributo doveva essere pagato in contanti, ma il cliente poteva saldare anche con parte del prodotto che portava a macinare. Il mugnaio aveva l’obbligo di pagare al fisco nei modi e tempi stabiliti dalla legge. Poiché la tassa del macinato era allora abbastanza pesante (grano: due lire per quintale; avena: una lira e venti centesimi per quintale; segale, granoturco e orzo: una lira ogni quintale, castagne secche: cinquanta centesimi) anche nella nostra montagna si cercarono sistemi per macinare i cereali in casa con metodi e attrezzature artigianali che vennero chiamati “macinelli” che, se scoperti dall’autorità, venivano sistematicamente sequestrati e i proprietari multati. Questa tassa, che portava mediamente ottanta milioni di lire ogni anno all’erario statale e contribuì al risanamento del bilancio dello Stato sulla pelle del popolo, terminò nel 1884 con la conseguente chiusura dei piccoli mulini dove non fu possibile applicare il contatore e provocò un malcontento generale tanto che cadde il governo in carica. Eliminata la tassa il prezzo del pane comunque rimase lo stesso
Una molenda un po’ particolare era quella applicata ai frantoi per la produzione dell’olio d’oliva; questa variava da zona a zona in base alle tradizioni locali. In tempi passati nei frantoi a trazione animale sia nella macinatura che nella pressatura con una trave verticale girevole di legno chiamata “bindolo” ( il bindolo lungo la Setteponti e nella zona del Cocollo è ancora oggi sinonimo di fatica) la molenda era minima (1%) e nel caso che il cliente, che era obbligato a fornire manodopera, portasse lui stesso un animale per far girare la macina, poiché il bindolo era girato quasi sempre a forza umana , la molenda era inconsistente in quanto il proprietario del frantoio prendeva solo l’olio della seconda decantazione o seconda “coglitura” e quello “dell’infernaccio”, così chiamata la vasca della terza e ultima decantazione. Inoltre al frantoiano veniva lasciata, come avviene ancora oggi, tutta la sansa prodotta, sansa che nei secoli passati veniva usata come combustibile e mangime per gli animali e poi, con l’evoluzione dell’industria chimico-olearia, veniva e viene inviata in fabbrica per l’estrazione con solvente di un olio, commercializzato come “olio di sansa”. In questo periodo invernale i frantoi (chiamati dal popolo fattoi) della montagna e quelli dei paesi lungo la Setteponti, fungevano alla maniera dei seccatoi di castagne come luoghi di ritrovo sociale, perché si stava al caldo, si beveva il vino nuovo, si conversava, si gustava l’olio nuovo su una fetta di pane arrostito e si dava una mano, molto gradita al cliente, a fare girare il bindolo che avvitava in trazione il canapo collegato al torchio. La molenda olearia ebbe un’evoluzione subito dopo la Grande Guerra, quando molti frantoi a trazione animale divennero elettrici e il pagamento dell’energia elettrica diventò la spesa maggiore in quanto, metà della manodopera era messa dal cliente (questa antichissima tradizione continuò fino ai primi anni ‘70 del secolo scorso e poi finì perché in contrasto con le leggi del lavoro) e la molenda aumentò.
I frantoi sia della montagna che della Setteponti in genere erano scomodi, sia come ubicazione che come grandezza di superficie e pesare le olive diventava un’operazione difficile e faticosa quindi, fin dai secoli passati era tradizione pagare in olio la molenda (nel secondo dopoguerra variava tradizionalmente dal 4% al 6%) in base all’olio estratto e non ai quintali di olive macinate, con la certezza allora che la resa minima che le olive davano in olio si aggirava sul 20% perché la raccolta avveniva a dicembre, gennaio e febbraio, periodi in cui le olive sono molto mature.
Con il passare del tempo la stagione di raccolta delle olive fu anticipata, migliorando la qualità dell’olio a svantaggio della resa, penalizzando così il frantoio, tanto che la molenda aumentò molto in percentuale, superando in qualche frantoio anche il 12%; questo succedeva all’ inizio degli anni ’70 del secolo scorso in virtù anche dell’aumento del costo della manodopera.
In molti frantoi per determinare la molenda vi era un altro metodo che non penalizzava il frantoio ed era basato sul numero di “filze”. La filza è un cilindro ad altezza prestabilita e diametro fisso che si costruiva pezzo per pezzo sovrapponendo dei dischi di acciaio e di stiancia (pianta palustre) contenenti la pasta macinata di olive che poi veniva pressata. Ogni filza, sia negli antichi frantoi manuali che in quelli elettrici, conteneva circa 280 kg di pasta macinata e la molenda consisteva di lasciare al frantoio una quantità di olio prelevato due volte con una brocca di stagno dalla capacità di due litri (kg 3,5 circa) per ogni filza lavorata; per l’ultima filza che raramente veniva completata il conto era fatto “ad occhio” in base all’altezza ottenuta. In effetti questo metodo era una pesata indiretta delle olive macinate. Nella zona del Cocollo e nella relativa fascia della Setteponti, anche negli anni del secondo dopoguerra molti anziani chiamavano la molenda con il termine “congio o cogno” che è una dizione correttissima, in quanto in molti contratti di mezzadria del secolo XIX e XX quando si parla di molenda per lavorazione olive, viene usato il termine “cogno”. Questa parola è riportata anche nei dizionari d’italiano e deriva dal vocabolo latino “congius” indicante un’antica unità di capacità tanto che per il vino nel medioevo esisteva il “cogno fiorentino”, mentre per la lavorazione delle olive si intendeva la quantità di olio da versare al proprietario per l’uso del frantoio.
È chiaro poi che sia i contadini della Setteponti che i montanari del Pratomagno sapevano perfettamente quanto pesavano le loro olive, il cereale, granturco o castagne secche che portavano a macinare, perché preventivamente erano stati da loro stessi misurati a staio raso, conoscendo esattamente il peso di uno staio dei vari prodotti portati al mulino o al frantoio. Già alla fine degli anni ‘60, qualche mulino e frantoio nuovo facevano pagare la molenda in denaro in base ai quintali di castagne secche, cereali e olive macinate, poi dal 1 gennaio 1973 entrò in vigore in Italia la legge dell’IVA e quindi fu obbligatorio il pagamento in denari della molenda e la fattura con relativi adempimenti fiscali. Si chiuse così una tradizione antichissima per mulini e frantoi che aveva origine dal profondo medioevo.
Il Maniolo, attrezzo del montanaro: Questa parola non è riportata da nessun vocabolario della lingua italiana, però sta ad indicare un utensile che ancora nel Pratomagno, così come nel Chianti e soprattutto nel Casentino, anche se sempre più raramente, è ancora oggi in uso. Di conseguenza si tratta di un vocabolo dell’antica civiltà contadino/montanara che lentamente sta scomparendo. Il maniolo è una piccola scure, spesso a forma di mannaia, con una impugnatura di legno corta, lunga all’incirca 40 cm; insomma un arnese abbastanza leggero tanto da essere usato con una mano sola dai boscaioli.
L’etimologia di questa parola è incerta, probabilmente però deriva dal fatto che l’attrezzo in questione è dotato di un manico corto; nel Museo della Civiltà Contadina di Gaville ve ne è presente più di un esemplare. Il termine maniolo è riportato anche in due volumetti che parlano di parole ritrovate e di vernacolo fiorentino. Dai nostri montanari si aveva un uso frequente di questo attrezzo quando era il tempo di tagliare i polloni (succioni o succhioni) selvatici ai castagni innestati e veniva molto usato dai boscaioli per abbozzare (squadrare) i tronchi tagliati per farne delle travi, dai carbonai per spaccare la legna e dai contadini per appuntare i pali da vite. Essendo uno strumento poco ingombrante ma di largo uso, la gente di montagna aveva l’abitudine di portarlo addosso appeso alla cintura mediante un gancio; questo succedeva quando la persona si allontanava da casa durante il giorno nel bosco o nei campi e quando la sera i montanari andavano a veglia da qualche famiglia lontana; in effetti il maniolo faceva anche le veci di arma personale. La dott.ssa Crista Bertelli di Poggio di Loro, ricercatrice e scrittrice che fece a suo tempo nella sede di Montevarchi del CAI una bellissima conferenza sulle tradizioni montanare, scrive nel suo libro Le Stagioni del Pratomagno che fra gli abitanti della nostra montagna, i casentinesi erano quelli che avevano sempre l’abitudine di portare addosso questo arnese, tanto che era facile capire da che vallata venissero i cercatori di funghi, perché quelli che provenivano dal Casentino avevano sistematicamente a portata di mano il maniolo.
Testo e foto di Vannetto Vannini