L’ultima grande carestia ed epidemia di tifo petecchiale nella nostra montagna. L’affermazione della patata come alimento importante fra le genti del Pratomagno
Le persone che erano nate negli ultimi decenni del secolo XIX, in gran parte coloro che avevano partecipato alla Prima Grande Guerra (i nostri nonni per molti di noi: i miei nonni sia paterni che materni erano della classe 1879), parlavano spesso dell’ultima carestia che attanagliò per alcuni anni gran parte d’Italia e quindi anche la Toscana e le nostre zone. Di questo erano stati messi al corrente dai loro rispettivi nonni, alcuni dei quali avevano vissuto quel periodo da bambini perché nati nel primo decennio del secolo XIX. La carestia in effetti ci fu, e seguita poi da una epidemia di tifo petecchiale che spopolò in parte la nostra montagna, una carestia che cambiò il modo di alimentazione della nostra gente facendo emergere l’importanza della patata come prodotto alimentare che poteva sostituire benissimo, in momenti difficili, le castagne e anche il grano, patata che poi entrò nella dieta quotidiana delle genti di montagna.
Dal punto di vista storico, vi sono pochi riscontri sulla crisi economico-sociale del 1815-1817 in quanto è una crisi quasi dimenticata,rimangono invece molti documenti di natura sanitaria da parte di medici che cercarono di arginare l’ epidemia, negli archivi parrocchiali (stati delle anime) e comunali vi sono inoltre le pagine con i nomi dei morti. Nella nostra montagna la quasi totalità della popolazione non godeva di nessuna tutela, ne sociale, ne politica ne sanitaria; per grandissima parte analfabeta viveva in uno stato di estrema vulnerabilità. Denutrizione, miseria, condizioni igieniche da primitivi, malattie epidemiche e endemiche creavano un quadro esistenziale desolante, anche i parroci, benché categoria religiosa e sociale privilegiata, seguivano a ruota le condizioni dei loro parrocchiani.
L’occupazione napoleonica era finita poco dopo la battaglia di Lipsia nel 1813, ma le ripercussioni economiche della dominazione francese rimasero a lungo, una dominazione che con continue richieste di soldi e alimenti per mantenere i soldati presenti e foraggi per le bestie, aveva depauperato anche le nostre zone e costretto alla fame e alla miseria nera i ceti sprovvisti di mezzi. Fra il 1810 e il 1817 il disastro alimentare fu provocato dalla sequenza di cattivi raccolti non solo di cereali, ma anche delle castagne, vale a dire dell’ultima ancora di salvezza, in mancanza della quale ai montanari restava soltanto la discesa in massa verso la pianura e le città. Nella primavera del 1815 i granai erano completamente vuoti, come pure era finita la farina di castagne e tutti speravano nel nuovo raccolto che era ancora lontano . La situazione peggiorò notevolmente l’anno successivo (1916) quando gli effetti della eruzione-esplosione del vulcano Tambora, si fecero più gravi aumentando a dismisura le avversità climatiche. Il Tambora è ancora oggi un vulcano indonesiano che nell’aprile 1815 eruttò causando la morte di circa 60.000 indonesiani e sparse nell’atmosfera gas solfurei che generarono un aereosol tanto denso e spesso da bloccare la luce del sole su tutta l’Europa e del Nord America. Secondo l’ Università di Firenze il Tambora eruttò nell’atmosfera qualcosa come settanta km/cubi di cenere che provocarono due anni senza estate in cui i raccolti furono falcidiati dal freddo perché l’irraggiamento solare fu minore di un terzo rispetto alla normalità. In Italia la regione più colpita fu il Friuli/Venezia Giulia dove i morti di fame superarono i morti per contagio. In questa regione vi furono anche diversi morti per una malattia semisconosciuta che fu chiamata “Pellagra”, dovuta alla mancanza di vitamina B nell’alimentazione. La pellagra non sappiamo se in quel periodo da noi fu presente, le nostre genti faranno i conti con questa malattia molti anni dopo, negli anni ’80 del secolo XIX sia nella nostra montagna ma soprattutto nel Mugello.
Lo Stato Granducale liberalizzò al massimo all’interno il commercio delle granaglie e per dare un sussidio alla gente decretò l’apertura di lavori pubblici e la fornitura di quantitativi di canapa da tessere nelle case per incrementare l’occupazione e creare una fonte di reddito (lo stesso era stato fatto con successo nella precedente carestia del 1766). I cantieri di lavoro furono aperti soprattutto in Maremma per la bonifica, ma anche un po’ in tutta la Toscana per la costruzione di strade civili e militari. Nelle nostre zone vi furono cantieri per migliorare la viabilità fra Arezzo e San Sepolcro e fra Pontassieve e il Casentino. Nel gennaio 1917 operavano, in condizioni di promiscuità e pochissima igiene, nelle campagne di Grosseto oltre 4000 braccianti provenienti dal Casentino e Lunigiana che erano due sacche geografiche di miseria endemiche fra le più notevoli del Granducato , queste persone, molte debilitate fisicamente, erano impegnate nei lavori agricoli ma soprattutto di bonifica. Si diffusero le febbri portate dal tifo petecchiale in forme più virulente di quelle dovute alla malaria e questo portò a bloccare ogni ulteriore invio di lavoratori nel grossetano insieme alla richiesta di controlli medici più frequenti e sistematici. A questo punto,il ministro Corsini, responsabile della sanità del governo toscano, non credendo che le febbri fossero contagiose come aveva previsto il medico Gaetano Palloni (nativo di Montevarchi) che esercitava la professione a Livorno ed era stato nominato ispettore sanitario del porto, fece tornare ai loro paesi di origine diverse centinaia di braccianti. A causa di questo provvedimento, l’epidemia di tifo petecchiale si allargò a macchia d’olio in tutta la Toscana, contagiando pesantemente il Casentino e il Pratomagno. Inoltre sono da tenere presenti le cerimonie religiose con grande affluenza di popolo, per implorare la fine della carestia o la pioggia nell’estate 1817 dopo diversi mesi di siccità.
Intanto la carestia diventava sempre più preoccupante e insieme all’epidemia si arrivò ad una situazione esplosiva che portò molte persone ad abbandonare la propria dimora e darsi all’accattonaggio nelle città. Gli affamati, abbandonata la montagna, scendevano al piano, si affollavano nelle città costiere come Pisa, ma soprattutto Livorno dove sbarcava ed era immagazzinato il grano preveniente dal porto di Alessandria d’Egitto e da quello di Odessa, o nelle valli interne rinomate per la loro fertilità. Se venivano catturati erano rispediti nei paesi di origine, dove la situazione alimentare-sanitaria non era cambiata e di nuovo se ne partivano per le città. Era preferibile morire di fame e rischiare il contagio in città per far massa di fronte ai forni, ai magazzini, alla sede comunale, piuttosto che languire e morire isolati nelle montagne e campagne, ormai depredate di tutto ciò che era commestibile. Il problema degli accattoni fu cercato di risolverlo, arrestandoli e concentrandoli soprattutto a Pisa, dove in due mesi ne furono rinchiusi 4013, molti malati e tutti a spese di associazioni di beneficienza; proprio a Pisa queste associazioni distribuivano gratuitamente circa 5000 zuppe “economiche” al giorno, senza riuscire a sfamare tutti gli accattoni in circolazione, mentre l’epidemia si diffondeva sempre più intensamente.
Il governo granducale, con la legge del 22 Giugno 1816 reintrodusse nello stato toscano la pena di morte per i colpevoli di furto violento e cercò di favorire al massimo lo scambio e il commercio delle derrate alimentari e contemporaneamente a impedire la mobilità delle persone. Coloro che non erano toscani venivano espulsi dal granducato e i toscani sani e validi erano inviati ai cantieri dei lavori pubblici, poi se infetti,venivano ricoverati negli ospedali provvisori delle rispettive comunità di origine con l’obbligo di restarvi. In Toscana non si verificarono le agitazioni, poi sfociate in tumulti anche gravi, che avvennero durante quel periodo in altre parti d’ Italia soprattutto nello Stato Pontificio dove le condizioni di vita erano molto peggiori che da noi. Sicuramente ciò fu dovuto anche all’attivismo e al talento organizzativo delle associazioni di beneficenza private che in Toscana son sempre state numerose e attive, ma anche a una rinnovata mentalità dei funzionari pubblici preposti, mentalità e comportamenti provenienti dall’esperienza politico-amministrativa fatta durante il periodo del dominio napoleonico.
Il ritorno alla normalità negli anni successivi fu dovuto a tutta una serie di buoni cerealicoli che posero fine alla “fame” e rimisero in moto il commercio con relativa circolazione di moneta. Con la fine della carestia, piano piano sparì di conseguenza anche l’epidemia.
Nella nostra montagna del Pratomagno, ma non solo, un po’ in tutta Italia ma sarebbe sensato dire in tutta Europa, chi riuscì un po’ ad arginare la fame furono i contadini che in quelle annate meteorologicamente avverse, avevano seminato le patate. Questa piantina che ancora non tutti avevano accettato e la cui coltivazione era ancora avversata da molti contadini era creduta un alimento a rischio perché tossico o addirittura velenoso. Questo pregiudizio negativo derivava dal fatto che , quando questa piantina fu portata in Europa dall’America Meridionale perche coltivata nelle montagne andine sopra alla fascia di coltivazione del mais, venne considerata in Italia alla stregua di una pianta di bietola, veniva scartato il tubero e mangiate le foglie, che contengono una sostanza tossica : la Solanina. Inoltre se la patata veniva conservata alla luce, e questo i nostri agricoltori ancora oggi lo sanno benissimo, oltre a mettere i nuovi “ributti o germogli”, nella polpa immediatamente sotto la buccia la patata diventa di colore verde a causa della Solanina che si forma, catalizzata dal fotone di luce. La diffidenza verso questa nuova piantina durò a lungo, fino a metà secolo XVIII, poi venne il periodo illuminista e questi tuberi, debitamente conservati, vennero adottati da borghesi illuminati come cibo in maniera diffusa, ma nelle campagne il pregiudizio durò fino alla fine di quel secolo.
Nel volume “Riflessioni e osservazioni sull’agricoltura toscana e particolarmente sull’istituzione dei fattori” autore il Dott. Francesco Chiarenti, edito a Pistoia nel 1819 a pag 186 si legge: Malgrado dunque di tutte le opere scritte sul vantaggio della coltivazione in grande delle patate, i Toscani l’avevano trascurata, e niuna provincia vi si era dedicata per certa contrarietà, che tutti gli uomini hanno per le cose nuove, e particolarmente quelli che mancano d’istruzione, come sono i pratici agricoltori. La miseria, e la fame, le sole molle potenti a risvegliare anche gli uomini i più indolenti, e grossolani, poterono indurre alcune popolazioni più disgraziate della Toscana a dedicarsi alla coltivazione in grande di esse. La Montagna Pistojese, la Romagna,Il Casentino ed il Chianti sono state di fatti le sole Provincie, in cui le rispettive popolazioni, dal 1816 in poi, si son date delle grandi premure per estendere la cultura dei pomi di terra. La prima si è distinta sopra di ogni altra, perché la fame mieteva più che nelle altre una maggiore quantità di persone.
Quando la patata fu accettata in pieno da tutti, fra l’altro era benissimo coltivata nei terreni di montagna marginali e a clima freddo, in tanti capirono che con la coltivazione di questi tuberi era iniziata una nuova era perché la popolazione aveva un’ ulteriore arma contro la carestia. La patata, o “pomo di terra” come allora veniva chiamata, all’occorrenza diventava una risposta alla fame antica , che periodicamente ritornava nelle montagne quando il raccolto delle castagne era scarso, così come nei fondovalle quando era scarso il raccolto del grano. Nelle quote basse della nostra montagna dove in qualche zona, come sotto Querceto, dove storicamente vi veniva coltivato il grano saraceno, l’unione di questo cereale con la patata, conferiva alla polenta di patate (purè) una consistenza meno collosa e un gusto molto più gradevole.
Ancora oggi, camminando nei sentieri del Pratomagno, troviamo a quote abbastanza alte tanti terrazzamenti e sappiamo che proprio in quei terrazze (pianelli) vi venivano coltivate le patate rosse, di cui ancora oggi abbiamo il seme , ma anche la varietà bianca chiamata “Pisana”, una varietà che aveva trovato l’habitat ideale nella nostra montagna. Una patata che i nostri montanari del Pratomagno conservavano dentro le conche o al fresco asciutto nelle capanne in buche sul pavimento rivestite di paglia di segale , sia quelle nelle conche che quelle nelle buche mescolate e ricoperte da un abbondante strato di cenere. Patate che i nostri nonni ci hanno detto essere di ottimo pasto e sapore, granulose, piccole e oblunghe, molto ricercate dai compratori il lunedì al mercato di Loro Ciuffenna, un tubero che ha fatto in parte la storia dell’alimentazione del Pratomagno fino alla Seconda Grande Guerra ma di cui oggi però abbiamo perso il seme: non si deve perderne la memoria !
Foto e testo di Vannetto Vannini