Pratomagno: la coltivazione della segale nella tradizione della nostra montagna

Le news Loro Ciuffenna

Testo e foto di Vannetto Vannini

Mettendo insieme brandelli di memoria, ricordi dell’adolescenza e proverbi sentiti direttamente nel secondo dopoguerra   dallo bocca dei vecchi montanari del Cocollo, rimasti tenacemente aggrappati alla loro povera terra, la tradizione della coltivazione della segale che ormai è diventata storia, merita considerazione e uno spazio su Terre Alte. Da tenere presente che, anche se non in Pratomagno, questa preziosa piantina in varie zone montuose delle Alpi e in minor misura negli Appennini, era la base di una vera e propria civiltà, la “civiltà della segale” che aveva affiancato quella del castagno.

La segale è il cereale che meglio si adatta alle condizioni ambientali della montagna e le origini di questa piantina vanno fatte risalire ad una specie selvatica differenziatasi nella Europa del Sud e nelle regioni asiatiche mediorientali. Nella nostra montagna insieme al grano,  patate e legumi, orzo e avena, la segale ( Secale cereale)  rientrava fra i  seminati nelle rotazioni quadriennali delle culture agrarie, ma la superficie coltivata a  segale nel Pratomagno  non è mai stata eccessiva perché l’esposizione e  l’influsso del vicino Tirreno in termini di venti marini  , ha sempre permesso, oltre al grano,  molta semina dei legumi   che  preferiscono climi non molto freddi, però anche  la segale, per diversi motivi,  ha avuto una certa importanza fino al crollo della mezzadria e della civiltà del castagno.  Un po’ diversa è stata la coltivazione di questo cereale nel Pratomagno casentinese, dove l’esposizione non favorevole determina un clima più freddo e i venti del Tirreno non arrivano perché fermati nel versante valdarnese. Questa peculiarità climatica ha sempre determinato qualche difficoltà alla coltivazione del grano ma soprattutto dei legumi a beneficio della coltivazione della segale che nel Pratomagno casentinese   è sempre stata molto comune. L’immagine allegata a questo post è una foto fatta dal sottoscritto, nella prima settimana di settembre 2015 durante un’escursione sopra Cetica, esattamente   nei pressi della località Badia (Badia alle Pratole) a quota 950 slm lungo il sentiero CAI 54, dove era presente un bellissimo appezzamento di terreno coltivato a segale con stelo alto e quindi   sicuramente nata da una semina di antica varietà. Interessante appena fuori dal coltivo l’esistenza di un grande melo di varietà sconosciuta catalogato dagli agronomi come “Melo sine nomine di Badia alle Pratole” di un’età prossima ai cent’anni   e riportato nel volume “Alla riscoperta della frutta antica in Casentino “Edizioni ETS 2013 e nel volume “Le antiche varietà di fruttiferi del Casentino”, Regione Toscana, 2011. Le foto del melo sono riportate nell’articolo L’antico spedale di San Romolo alle Pratole.

La segale è un cereale adattabile ai climi secchi, umidi e terreni poveri, capace di germinare rapidamente anche a basse temperature e di resistere a queste ultime nel periodo vegetativo, tale da garantire la produzione di apprezzabili quantità di granella e paglia. In Europa i maggiori produttori di segale sono Germania, Polonia, Ucraina e Russia; la segale è una delle materie prime    per produrre la vodka.

Nella nostra montagna, soprattutto nel Monte Cocollo, la segale era seminata nei coltivi riposti, più aridi, sassosi, esposti a “bacìo”, terreni “a brinata” dove il sole era presente solo qualche ora al giorno; una sommaria lavorazione eseguita a mano e la terra, spesso neanche concimata, era pronta per la semina.  La segale era seminata e cresceva bene anche nel terreno “arrabbiaticcio”, un termine molto usato nel linguaggio del tempo    sopra e sotto la Setteponti indicante un terreno “guasto” non coltivabile ad altri seminativi. Il termine “arrabbiaticcio” che io da giovane ho creduto parola locale inerente alla sola zona di Malva, Persignano, Piantravigne e Montemarciano e relativa collina/montagna è invece un termine di risonanza nazionale presente anche nei vocabolari della lingua italiana, indicante un terreno reso difficile dalla penuria di azoto e dalla pioggia che ha lasciato un differente valore di umidità nei vari strati del terreno. Nella nostra zona qualche rara volta, nel mese di novembre, una piccola quantità di segale veniva seminata insieme al grano, in quanto i due cereali maturano lo stesso tempo e venivano raccolti e macinati insieme. Nel Pratomagno, soprattutto monte Cocollo e crinale di Montrago fino ai primi anni ’50 del secolo scorso era comunissimo fra i contadini un proverbio che diceva esattamente così: La segale fa bene alla madia, alla stalla e alla borsa! Poiché in ogni massima popolare c’è un fondo di verità, vediamo il significato di questo antico detto montanaro.

Madia: Nella cucina della casa di collina e di montagna fino agli anni ’60 del secondo dopoguerra, la madia era un mobile rustico o elaborato costruito dal falegname locale, un’indispensabile cassa alta di legno poggiante sul pavimento e dotata di un grande coperchio lungo quanto il mobile che tutto o a metà poteva essere sollevato in alto a cerniera. All’interno della cassa veniva conservata con premura    un po’ di pasta lievitata    della lavorazione precedente con sempre impressa sopra una croce e coperta d’inverno con un tovagliolo; c’erano poi    i pani, in genere di due kg l’uno che venivano consumati dalla famiglia durante la settimana.  All’interno della madia veniva fatto, settimanalmente ma di solito non il venerdì, l’impasto di farina, acqua, una porzione di lievito di birra sciolto in acqua appena tiepida e la residua pasta conservata, che aveva il compito di favorire   la reazione chimica di fermentazione a tutta la massa, reazione di lievitazione/maturazione agevolata da una temperatura mite ma non calda che durava tutta la notte. Durante il periodo estivo quando le notti sono calde, c’era il pericolo che la lievitazione dell’impasto fosse troppo abbondante e questo avrebbe creato problemi nella cottura in quanto sarebbe venuto fuori un pane troppo alto, poco compatto, con delle cavità nella midolla interna, un pane che i nostri montanari chiamavano “pane fognato”.  Per ovviare a questo inconveniente e avere sotto controllo la lievitazione, alla farina di grano veniva mescolata una certa quantità di farina di segale che ha una lievitazione molto, molto contenuta anche d’estate e un pane molto compatto. La quantità di farina di segale aggiunta era data dall’esperienza della massaia, ma che comunque doveva inficiare poco sulla colorazione bianca del pane, in quanto il pane di segale ha un colore molto scuro. In genere durante l’inverno la farina di segale non veniva usata poiché la bassa temperatura ostacolava la lievitazione dell’impasto e addirittura la notte della lievitazione veniva mantenuto sul focolare il fuoco acceso.

Stalla: Quando il contadino, sia di piano che di montagna, “faceva il segato” per dare da mangiare alle bestie vaccine, spezzettava cioè con la coltella inserita nella ruota del falcione a mano o elettrico lo strame (erba medica, steli verdi di granturco, avena, saggina, fieno…). Insieme allo strame mescolava sempre un po’ di paglia, che doveva necessariamente essere di grano perché quella di segale contiene sostanze amare per cui veniva rifiutata dalle bestie. La paglia di segale, che è molto più resistente di quella di paglia veniva usata come lettiera per vacche, buoi, vitelli, asini, muli, maiali e una volta trasportata nel letamaio, da noi chiamato soprattutto “conciaia” maturava con il tempo, creando un concime forte e adatto ai terreni poveri, un concime molto richiesto che veniva sparso a ventaglio soprattutto negli oliveti o dove veniva seminato il grano.

Borsa: Questo termine è relativo all’economia della famiglia ed è sinonimo di “risparmio”. La paglia di segale veniva usata, all’interno di una vecchia tecnica di costruzione tramandata di generazione in generazione per costruire tetti di capanne e casotti lontano da casa, evitando di spendere denaro per comprare tegole o   il disagio e la fatica per ricavare e movimentare lastre di pietra. Questo metodo, comune nelle Alpi, Appennino e nella nostra montagna, era dovuto al fatto che la paglia di segale è imputrescibile e con un po’ di manutenzione il tetto ha una durata anche trentennale. La segale da tetto che spesso veniva seminata   in un terreno a ronco nei pressi dove veniva costruita la capanna, era una segale che doveva essere lunga e robusta, battuta a mano perché gli steli non dovevano essere assolutamente spezzati e il chicco totalmente eliminato per non attirare i topi. Le manne di paglia venivano fissate su un’orditura in legno molto leggera a falde alquanto inclinate per facilitare lo scivolamento dell’acqua e della neve.  Io ricordo bene in una selva sopra la borgata di Odina   sotto il crinale del monte Cocollo alcune capanne non proprio piccole, che erano veramente dei capolavori di architettura rustico/ povera   di montagna, comprensive di pareti verticali fatte con l’erica (scopa) e il tetto con paglia di segale.

Nella microeconomia della montagna oltre la vendita della cenere, delle pigne per l’accensione del focolare, delle pigne da pinoli, dei funghi, delle foglie di moro per i bachi da seta, dei mazzi conciati di salci per legare le viti, un piccolo introito proveniva dalla vendita della paglia di segale per la produzione di cappelli e borse. La paglia, a differenza del fieno, ha una composizione simile al legno comprendente cellulosa, cere, lignina, minerali vari e silicati e per questo motivo è lucida, si decompone lentamente ma sviluppa muffe se tenuta sotto la pioggia; la paglia di segale e più forte e più lavorabile di quella di grano di cui quella più adatta derivava dalle varietà   di grano marzolino e gentil rosso. La lavorazione della paglia è sempre stata importante per l’economia toscana e ha origini antiche documentate  fin dal secolo XIV tanto che all’inizio del secolo XVIII si cercò di produrre una  varietà di grano a stelo forte e lungo la cui paglia era usata esclusivamente per fare le trecce da cui venivano ricavati i cappelli; rimase però sempre preferibile usare quella di segale perché oltre che essere più lavorabile, essendo meno gialla di quella di grano, non occorreva in fabbrica il processo di scolorimento con zolfo per prodotti finiti bianco avorio. Per dare un’idea dell’importanza economica della manifattura della paglia soprattutto nelle vallate del bacino dell’Arno, si riportano i dati pubblicati in “Economia toscana del primo ‘800” di Ildebrando Imberciadori – Vallecchi, 1961 in cui a pagina 178 si legge che prima del 1812 erano impiegate in questa lavorazione circa 20.000 persone che poi salirono a 80.000 e la paglia divenne un prodotto commerciale importantissimo. In Europa i mercati principali che assorbivano gran parte della produzione toscana di cappelli e manufatti di paglia erano quello inglese e quello tedesco, che aveva nella fiera di Lipsia il momento più importante.  Essendo il costo della materia prima molto basso, in quanto la paglia era considerata un sottoprodotto dell’agricoltura, in considerazione degli alti profitti si crearono delle vere industrie e molto lavoro a domicilio che interessò anche la nostra vallata. Nel libro “La manifattura della paglia e l’estrazione della materia greggia attraverso i documenti dell’Accademia dei Georgofili nell’ 800 “di Angelita Benelli Ganucci, Edizioni Polistampa, 2006 a pagina 24 si legge un’osservazione dell’agronomo/politico Cosimo Ridolfi (1794 – 1865) che dice: “…. Si videro in breve tempo sorgere borgate intere ove non era che rasa campagna, e quelle case si costruivano con i guadagni delle donne lavoratrici di cappelli. Si videro gli uomini validi e robusti lasciare i mestieri usitati ed oziare come Alcibiade tra le ancelle scegliendo la paglia fina dalla più grossa, si videro stabilir matrimoni e creare famiglie e viver liete solo occupate di intrecciar paglia. E quelle fila, che realizzavano la favola del vello d’oro, attrassero a se tutte le mani che ormai sdegnavano l’ago e la spola come vili mestieri, perché infinitamente meno lucrosi”. Il periodo d’oro per la lavorazione della paglia e di conseguenza per le trecciaiole durò fino agli ultimi decenni dell’800 quando ebbe un ridimensionamento sia per la crisi del mercato americano e inglese, ma soprattutto per l’arrivo in Europa a prezzi stracciati delle trecce cinesi e malesiane. Come riportato sempre dal volume “La manifattura della paglia … la pesantissima situazione provocò la rivolta delle trecciaiole che nel 1896 riuscirono ad organizzare uno dei primi scioperi della storia sociale italiana; la protesta che partì da Signa e San Donnino si allargò rapidamente nei comuni dell’area fiorentina e del Valdarno aretino. Con il tempo il mercato si stabilizzò e riprese soprattutto per qualità della treccia toscana rispetto a quella asiatica.  Nel secondo dopoguerra il lavoro a domicilio della paglia cambiò in quanto le trecce erano fatte a macchina nelle fabbriche e si indirizzò alla finitura di cappelli ma soprattutto   di borse di paglia, con grande professionalità e maestria delle nostre donne. Questo lavoro perdurò nei paesi della Setteponti fino all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso.

 Per ribadire ancora l’importanza della paglia di segale nella produzione dei cappelli, riporto quando scritto a pagina 178 in “Economia toscana del primo ‘800” di Ildebrando Imberciadori su un “…. Bellissimo cappello di 125 giri fatto con paglia di segale, un capolavoro che nel 1836 fu acquistato dalla Corte di Vienna per 1400 franchi, pari a 16,24 lire toscane”, un prezzo talmente alto che oggi sarebbero migliaia di euro.

I nostri montanari che coltivavano la segale per ricavarne anche paglia per cappelli e per impagliare le sedie, non mietevano il cereale ma lo strappavano appena maturo con le mani dalla terra, tagliavano poi le radici e la terra con delle forbici da pota facendo attenzione a non rompere lo stelo e formati dei fasci chiamati manne, alle quali venivano effettuate tre legature (in cima, nel mezzo e in fondo) per sostenere integro e diritto il filo di paglia.  Portate le manne a casa, accomodate bene nella civea della treggia, la spiga contenente il chicco di segale veniva tagliata con le forbici e battuta, mentre la paglia era sciolta e selezionata per grandezza e lunghezza degli steli, eliminando gli eventuali fili d’erba e quelli affetti da ruggine. La paglia di segale selezionata e raccolta era mantenuta in luogo asciutto, areato e venduta ai commercianti che erano gli stessi che compravano il giaggiolo e le coccole di ginepro.

Durante il taglio delle spighe dallo stelo si vedeva bene se alcune erano state attaccate da un parassita delle graminacee che forma delle escrescenze a forma di corna da cui il nome di “segale cornuta”. Le corna contengono diversi alcaloidi che producono allucinazioni e altri effetti e sono in grado di influire sulla capacità dell’individuo di formulare ragionamenti sensati e coerenti, pertanto queste corna erano attentamente isolate e vendute ai farmacisti della zona (gli abitanti di Gello potrebbero essere tutti “ammattiti” bevendo alla fonte la cui acqua   aveva solubilizzato questi alcaloidi portati dal vento).

La segale, un cereale umile che tuttavia contribuiva a riempire   una piccola casella nel difficile gioco ad incastro   dell’economia di montagna, dove tutto aveva importanza, dove qualsiasi cosa, anche la più impensabile diventava utile per tirare avanti una vita piena di sudore, fatica e privazioni, ma sempre comunque molto dignitosa.

Oggi la paglia selezionata di segale per i vari usi, può essere acquistata su Amazon.

Sugli effetti della segale contaminata dal fungo parassita claviceps purpurea, vedi Tradizioni contadine: Sant’Antonio Abate, la notte in cui gli animali parlano.

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