Il “Meo”: figura caratteristica nella società montanara di ieri.

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Fino al periodo fra le due guerre mondiali nella società montanara del Pratomagno era ancora viva la figura del meo. Il meo altro non era che un ragazzo di circa 12 anni, che una famiglia povera affidava per un certo periodo di tempo ad un’altra famiglia, soprattutto di carbonai o boscaioli, per lavorare e imparare il mestiere. Il meo era abbastanza simile al comune garzone che veniva dato in affidamento presso i contadini del piano, c’era però una differenza sostanziale in quanto il garzone era soprattutto un prestatore d’opera per quanto riguardava l’accudimento di pecore, capre e maiali, mentre l’attività del meo oltre che di aiuto, era finalizzata ad imparare   un mestiere difficile come quello del carbonaio, che faceva dire ai vecchi del mestiere che “a fare quel lavoro non si è mai finito d’imparare”. Effettivamente fare il carbone era un’arte, ma soprattutto un’arte difficile in quanto la carbonaia doveva bruciare sempre in difetto di ossigeno, perché se la carbonaia bruciava in eccesso di ossigeno invece del carbone veniva fuori la cenere, se l’ossigeno era troppo in difetto oltre al pericolo di spengersi la conversione della legna in carbone era solo parziale.  Per questi motivi quando una carbonaia era attiva, veniva controllata sempre, anche di notte, pronti ad intervenire aprendo o tappando determinati sfiati al basamento del cono, tenendo sempre pronti recipienti di acqua. È per questo che le piazzole delle carbonaie venivano costruite vicino a dei torrenti.

Sembra che la parola meo derivi da Bartolommeo, in quanto il santo che porta questo nome è considerato il protettore dei ragazzi e il meo era ancora un ragazzo.  In montagna la vita di un adolescente era dura, si cresceva alla svelta in quei tempi e l’età dei giochi finiva con l’infanzia. La scuola era considerata allora una perdita di tempo. Quando era possibile veniva frequentata solo per un paio di classi, allo scopo di saper leggere e far di conto quanto bastava. Unico svago era quello di essere portato dai genitori “a veglia” la sera in qualche casa vicina, mentre il momento di socialità e riposo era quello della Messa della domenica, che riuniva la comunità sul sagrato della chiesa.

Le condizioni socio-economiche dei montanari erano tutt’altro che floride perché la loro era una vita durissima, ancorata a un’economia povera che era soprattutto di sussistenza. Tolti alcuni grossi proprietari terrieri-allevatori, la maggioranza della popolazione viveva del frutto di piccoli appezzamenti di terra e di bosco che non bastavano per il sostentamento familiare e allora, per integrare, molti imparavano il mestiere del carbonaio, un mestiere difficile e scomodo che li teneva lontani da casa da novembre a giugno; i carbonai del Pratomagno partivano soprattutto per la Maremma, ma qualche compagnia arrivava fino all’Abruzzo, alla Calabria e alla Sardegna.  Il mondo dei carbonai, chiamati anche “i forzati della foresta”, era un mondo a sé, chiuso e con le proprie regole che sono durate fino al secondo dopoguerra. Seguendo usanze antiche si formavano le compagnie, comandate da un “capomacchia”, ingaggiate da un proprietario o da un committente per la produzione del carbone. I carbonai venivano pagati a giornata secondo un contratto accettato a parole dalle due parti e sancito con una vigorosa stretta di mano come era usanza fra galantuomini.  Fra i componenti della compagnia c’erano sempre uno o più mei e il loro reclutamento avveniva poco prima della partenza della compagnia. Il “capomacchia” o altro componente del gruppo, parlava con il babbo del ragazzo per stabilire il compenso in base alla durata della stagione lavorativa. L’età media si aggirava intorno ai dodici anni e, poiché anche il genitore sicuramente aveva fatto il meo in gioventù, conosceva bene i sacrifici che andava incontro suo figlio.

  A Ortignano-Raggiolo, in Casentino, era molto raro che i genitori affidassero ad altri il loro ragazzo, perché in quel paese vigeva la tradizione che i carbonai conducessero alla macchia un loro stesso figlio destinato a svolgere le mansioni di meo, ma con un trattamento da padre e non da padrone, e la cosa era allora ben diversa. Mi sembra doveroso precisare che non tutti i carbonai-padroni trattavano male il meo, anzi coloro che rifilavano a questi poveri ragazzi rimproveri continui e     calci nel” posteriore”, erano in netta minoranza.

 Il “meo” , pur passando alcune ore in piena   notte a vigilare la carbonaia, era il cuoco della compagnia e si alzava prestissimo a preparare la colazione, l’acquacotta o la polenta che erano i   piatti base  della giornata; doveva fare pulizia  e sistemare le rapazzole (giacigli di foglie, felci e paglia, rialzati da terra) , doveva accudire durante il giorno il fuoco della carbonaia e  quello per cuocere i cibi,  andava ad attingere l’acqua alla sorgente, certe volte distante dalla capanna anche alcuni chilometri, portando un contenitore detto barletto, dal peso di circa 30 Kg; un carico troppo pesante per spalle ancora gracili e al rientro erano spesso rimproveri a causa del troppo tempo impiegato.  Doveva inoltre preparare la terra e fare la foglia per coprire la carbonaia, fare piccoli pezzi di legno detti mozzi per alimentare il fuoco. Lavori che si ripetevano ogni giorno. I carbonai non erano cattivi, erano solo uomini abituati ad una vita difficile; quasi tutti avevano fatto il meo da giovani e trattavano in maniera piuttosto dura il ragazzo perché diventasse un uomo come loro. Il meo, con grande sacrificio e   rimpiangendo spesso la mamma e la famiglia rimasta a casa, si dava da fare per entrare in breve tempo in sintonia con tutti gli altri personaggi della compagnia.

Il cambiamento economico e sociale del secondo dopoguerra ha posto fine alla “civiltà del castagno”, sono sparite tradizioni e antiche fonti economiche importanti per chi abitava in montagna. Durante le nostre escursioni in Pratomagno vediamo tantissime piazzole di carbonaie e ogni piazzola ci racconta la storia   di uomini e ragazzi che, forgiati dalla durezza del proprio lavoro, per aiutare e mantenere la famiglia, lasciavano il focolare domestico vivendo in solitudine fra i boschi per gran parte dell’anno.

Ho conosciuto Mario, che abitava a due passi da casa mia.  Era   nato al Praticino sotto Montrago nel 1912 e da giovane aveva fatto il meo e poi anche il carbonaio, conosceva a menadito tutta la montagna ed era stato uno dei componenti della squadra di uomini che partì da Castelfranco di Sopra per andare a cercare Hinkler, il trasvolatore australiano che si schiantò nel Pratomagno. Mi raccontava spesso con orgoglio, ma con gli occhi lucidi e lo sguardo lontano, della sua vita di meo e tutte le volte terminava con una strofa dell’ottava rima, dedicata proprio a questa umanissima figura di ragazzo che le vicende della vita di montagna facevano diventare quasi un forzato eroe. Con uno sforzo di memoria sono riuscito a rimettere insieme quello che in parte cantando e in parte recitando diceva   Mario: “L’aria è chiara, tiepida e leggera / la campagna di fiori e di erbe ornata / canta quell’usignol con buon maniera / la canzone del meo addolorata /Inneggia e canta la natura intera / inneggia alla campagna terminata /Io d’arrivare in fondo non credèo / Dio mi riguardi da rifarlo il meo”.

                                                                                                                                                                             

    Vannetto Vannini

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