Testo e foto di Vannetto Vannini
Per chi abitava la nostra montagna, come in tutte le altre montagne italiane, fra i tanti problemi da risolvere quotidianamente c’erano quelli sulla sufficienza alimentare e sulla viabilità. Soprattutto il primo era vitale e ritenuto a ragione l’elemento discriminante di maggior rilievo all’interno della stratificazione sociale, che comunque era sempre una società di poveri. Inoltre vi era per motivi economici nel mondo rurale, una forte tendenza all’autoconsumo, una specie di autarchia alimentare in quanto, soprattutto in montagna ci si nutriva, per necessità ma anche per etica, quasi del tutto con quello che si riusciva a produrre direttamente (autosussistenza). Nel Pratomagno non esistevano le cosiddette “ terre da pane” come vi erano nel fondovalle e sotto la Setteponti, esistevano tante selve, soprattutto nel versante casentinese , ed era la castagna l’alimento base, la regina della cucina di montagna, che va inquadrata non solamente come elemento da cui si ricavava il “pan di legno” che sostituiva per un certo periodo il pane di grano, ma nel contesto di una filiera gastronomica tutta dedicata a questo frutto, completa e comprensiva di antipasto, primo, secondo , dolce e liquori e ora anche birra. D’altra parte l’albero di castagno aveva nei secoli passati in montagna un’importanza enorme, basti pensare che la monumentale croce in ferro che oggi è sulla vetta del monte Amiata, sostituì nel 1910 una grande croce di legno messa alla fine del XVIII secolo per ringraziare nostro Signore per il dono del castagno. Sappiamo da pubblicazioni dell’Accademia dei Georgofili che Carlo Siemoni, ispettore dal 1836 della Foresta Casentinese, ordinò che i duemila operai, tutti piccoli proprietari, che lavoravano nella foresta dovessero annualmente esibire un certificato del proprio parroco, attestante che nei loro piccoli possessi piantavano almeno dieci alberi di castagno ogni anno fino all’esaurimento del terreno
Le castagne erano consumate fresche per un breve periodo, ma soprattutto secche e di queste solo una parte era macinata per fare la polenta, il castagnaccio, le frittelle e i dolci, ma una parte era conservata integra per fare colazione con latte caldo e miele (una vera specialità) e per fare primi e secondi piatti con relativi contorni di castagne. Esiste proprio un filone di gastronomia riportato in tante pubblicazioni in cui si fa uso larghissimo nei modi più disparati e impensabili della castagna sia come elemento principale di una pietanza che come contorno.
Tuttavia per buona parte dell’anno la popolazione del Pratomagno consumava pane bianco di grano, grano prodotto in piccoli coltivi specifici con una dedizione che rasentava quasi la religiosità. Il frumento veniva coltivato dai piccoli proprietari che erano la spina dorsale della società di quel tempo e di quei luoghi, i quali per vivere alternavano il lavoro del contadino con quello di allevatore, boscaiolo e carbonaio. In alcune famiglie era coltivato dalle donne e dai vecchi che avendo gli uomini in transumanza o per fare carbone in Maremma avevano l’onere della preparazione della terra e della semina dei cereali, dei legumi e dall’inizio del XVIII secolo delle patate, che rivoluzionando in positivo la cucina montanara allontanarono in certi periodi critici di inizio secolo XIX lo spettro della fame. Nel libro “La Trappola feudo dei Ricasoli” di Paolo Baroni (Mauro Mugnai Edizioni) si legge che la chiesa della Trappola, nel 1550 aveva una rendita di 95 staia di grano, 40 staia di castagne, 15 barili di vino e un barile d’olio. Nella nostra montagna il grano era in genere seminato nei terreni ubicati prima e alla fine delle selve per non interferire nella coltivazione dei castagni da frutto, in effetti poteva essere seminato a quote altimetriche elevate anche superiori ai mille metri. Il sentiero CAI 21 attraversando sopra Rocca Ricciarda i fianchi del Poggio Cocolluzzo, intorno a quota 1200 m circa, taglia i cosiddetti “pianelli di patate” dove vi sono anche dei pannelli esplicativi. In questo luogo, con una morfologia favorevole alla coltivazione, oltre che patate sicuramente veniva seminato il grano e i legumi in quella rotazione seminativa tesa a non impoverire al massimo con una monocultura il terreno che veniva lavorato con la vanga, concimato con letame di pecora che è ottimo come fertilizzante e qualche anno, a turno, ridotto a maggese; tutto il movimento dei carichi veniva fatto in genere con l’ asino o con il mulo ai quali, all’occorrenza veniva attaccata una treggia. La semina del grano come dei legumi veniva fatto creando delle “porche”, un sistema antichissimo, preciso, che richiedeva tempo e fatica ma molto valido, usato sia in montagna che nei terrazzamenti collinari sopra alla Setteponti e non nei grandi appezzamenti del fondovalle. Con il termine “porca”, da noi chiamato soprattutto “porga”, si intende una striscia, uno spazio di terreno piano lavorato finemente con la terra accumulata e spianata rendendo il tutto sopraelevato rispetto al livello base del campo e compreso fra due solchi paralleli che avevano lo scopo di favorire il drenaggio. Il termine “porca” del linguaggio agricolo ha una etimologia difficile e incerta. Era uso comune spesso seminare insieme al grano le vecce e allora il grano veniva chiamato “grano vecciato”, mentre se veniva mescolata la segale veniva fuori il grano chiamato “grano segalato”, da notare che vecce e segale maturano nello stesso periodo del grano.
Il grano e i legumi erano seminati anche in appezzamenti di terra ricavati nei boschi sopra alla Setteponti, boschi soprattutto di roverella e di arbusti. Quando nelle nostre escursioni passiamo attraverso un bosco e all’improvviso troviamo i resti di radure o di antichi terrazzamenti che la boscaglia sta lentamente riconquistando, quelle radure o pianelli una volta erano terreni seminativi a grano e legumi. Il sistema di trasformare appezzamenti di bosco in coltivi, favorito fino all’Unità d’Italia nelle nostre zone da leggi granducali per avere a disposizione più terra da lavorare dopo le carestie di fine secolo XVIII, era chiamato sistemazione a “ronco”. Questa parola deriva dal verbo latino “runcare” che significa tagliare, sarchiare, eliminare la vegetazione dal terreno ed è ricordato anche da Dante nel XX canto dell’Inferno, da questo verbo deriva anche il nome di un attrezzo molto comune fra gli agricoltori che è la roncola. Il sistema di aumentare i coltivi, ma anche i pascoli, a spese del bosco e spesso con l’uso del fuoco è stato praticato da sempre e i toponimi che fanno riferimento a “ronco” (Roncobello, Roncofreddo, Roncobilaccio, Ronchi dei Legionari, Ronco Scrivia ecc.) in tutta Italia, danno l’idea di quanto era comune questa pratica nei tempi passati; nella nostra zona la strada che da San Giustino Valdarno porta in montagna a Pratovalle si chiama “Via di Poggio al Ronco”. Dopo l’operazione di tagliatura e pulizia bosco, la legna grossa tagliata veniva utilizzata come legna da ardere mentre gli arbusti venivano bruciati sul posto e la cenere sparsa come concime nel terreno, se vi era una grande quantità di cenere, una parte di questa veniva insaccata e venduta come concime e questa tradizione era una abitudine comunissima nel nostro Pratomagno fino alla Seconda Grande Guerra. Non veniva confuso l’uso del fuoco durante il ronco con l’uso del fuoco per eliminare nel campi del fondovalle le stoppie di grano rimaste dopo la mietitura, questa operazione era chiamata “debbio” che è un etimo difficile ed incerto. Nel crinale del Pratomagno con il ronco è stata nell’arco dei secoli allargata la pratina sommitale ad uso pascolo eliminando la vegetazione composta da arbusti e rada faggeta, con l’uso intensivo del pascolo soprattutto di pecore e capre la pratina si è mantenuta poi integra fino ai giorni nostri. Nella zona del monte Cocollo, le ultime sistemazioni a ronco furono effettuate dalla popolazione di Malva e di Persignano nei boschi della fattoria di Poggitazzi e di Santa Maria per ricavare terreno e quindi produrre e mettere da parte piccole riserve di grano, a partire dall’autunno 1943 in previsione del passaggio del fronte bellico. Nella montagna del Cocollo il terreno seminato a grano, oltre a piccoli terrazzamenti nel versante rivolto alla vallata, era il crinale che dai ruderi del castello porta a Montrago, costituito da una sequenza di mammelloni con il Varco di Serra, il Varco d’Odina, Poggio alle Mandrie, Pian del Ciliegio, un crinale superiore a circa 800 m di quota e coltivato a tratti a grano fino agli anni ’60 del secolo scorso. I proprietari di questi terreni abitavano in gran parte nella zona di Modine e dopo aver abbandonato la coltivazione del grano vi seminarono saltuariamente il giaggiolo fino al 1980. Su questo crinale passava l’antica Via Casentinese, oggi sentiero CAI 35.
Se la sistemazione a ronco era relativa a convertire terreno boschivo/arbustivo a coltivi, gli agricoltori effettuavano poi la pratica del “maggese” nel trattamento del terreno prima della semina. La parola maggese deriva da maggio, in quanto la lavorazione più importante di un terreno adibito a “maggiatica” era fatta sempre di maggio, però nella terminologia rurale della nostra zona la parola maggese è sinonimo di riposo in quanto in quel terreno per un anno non viene seminato niente e quindi riposa. In effetti per reintegrare il terreno di sostanze fertilizzanti, dopo un avvicendamento delle semine in cui si passava dal grano alle patate e poi ai legumi (fave, ceci, legumi vari) si attuava un riposo lavorato di quel terreno durante un’intera annata attraverso le quattro stagioni, il riposo durava circa quindici mesi dalla mietitura o raccolta (giugno- luglio) fino alla semina dell’anno successivo (novembre). Da notare che durante il periodo di riposo, le lavorazioni del terreno venivano fatte in numero tale in base alle disponibilità dell’agricoltore, in quanto ognuno portava avanti la “maggiatica “come voleva. Di solito nel mese di agosto dopo la mietitura veniva praticato nel terreno un lavoro di rottura crosta abbastanza superficiale in modo da eliminare le stoppie e muovere la terra con lo scopo far penetrare l’eventuale acqua piovana, successivamente un lavoro profondo immediatamente prima delle maggiori piogge autunnali , d’inverno i ghiacci sgretolavano le zolle facendo diventare fine la terra che a maggio subiva un altro lavoro profondo poi alcuni superficiali ogni volta che il terreno faceva la crosta , all’eventuale sterpaglia presente veniva dato fuoco e la cenere usata come concime. Tutto questo perché il terreno, mantenuto soffice dalle lavorazioni, immagazzinava acqua pluviale e subiva trasformazioni benefiche dal calore del sole, poi a novembre dell’anno successivo in cui il terreno era tenuto a riposo, cominciava la semina e riprendeva il ciclo della rotazione seminativa. Gli strumenti con i quali si eseguivano nel periodo antecedente la seconda grande guerra i profondi lavori su questi terreni erano la vanga e in alternativa la zappa, lo zappone e il bidente che i nostri montanari chiamavano “ubbidiente”; il lavoro era pesante e portato avanti da più persone che si aiutavano a vicenda come era costume nella società montanara e contadina di un tempo dove la solidarietà era fortemente sentita. In genere le varietà di grano seminato erano il “Marzolino” che si seminava dopo l’inverno ed era il classico “grano da montagna” e il “Gentil rosso”, una varietà resistente alle malattie; queste varietà erano e sono ancora ottime per fare il pane in casa che durante la cottura emanava nei dintorni del forno un profumo intenso e piacevole di amido che si stava cuocendo. Gentil rosso e Marzolino sono varietà di grano con la spiga alta da terra circa un metro e mezzo e se questo particolare era un’arma contro le erbe infestanti, dall’altro era un difetto, perché la pianta di grano diventava molto sensibile all’azione del vento e degli agenti atmosferici provocando “l’allettamento” a terra. Oggi il Gentil rosso originale e il Marzolino non vengono più seminati se non in pochissime zone della Toscana (il Marzolino nella montagna pistoiese), soprattutto da aziende che producono grani di vecchie varietà, oggi si semina grano che ha una altezza da terra di nemmeno cinquanta cm, meno paglia ma più difese contro il cattivo tempo. Nel mese di luglio il grano veniva falciato e con le tregge portato alla casa colonica per essere spigolato a mano, un’operazione che impegnava tutta la famiglia contadina e che durava diversi giorni. Preparata una parte dell’aia le spighe venivano battute con forza su delle assi, spesso una porta di legno tolta dai cardini e appoggiata per traverso su due supporti e il chicco del grano cadeva a terra, però il sistema più usato era l’uso del correggiato, un attrezzo, il “flagellatio” dell’antica Roma, che veniva costruito dallo stesso agricoltore con due aste di castagno o di orniello, quella fissa e impugnata più lunga al cui vertice una correggia di cuoio che girava su se stessa alla quale era collegata la pertica battente un po’ più corta. Impresso a mano un movimento rotatorio alla pertica impugnata, questo faceva girare a 360° la correggia ampliando il moto rotatorio che metteva in azione la seconda pertica la quale batteva con violenza sul grano a terra dividendo i chicchi dalle spighe e dalla paglia, in genere questo lavoro a ritmo diverso ma sincronizzato, era fatto in contemporanea da due persone mantenendosi a debita distanza l’uno dall’altro.
Il grano comprensivo di lolla, residui di spighe e pezzettini di paglia era raccolto in un grande vaglio spesso attaccato con funi a un ramo d’albero e oscillante; con l’uso di questo attrezzo veniva separato il grano con un lavoro di spolvero attento ma lento e di non grande fatica tanto che questa operazione normalmente era fatta dai vecchi e dalle donne. Ancora oggi il correggiato viene usato per battere piccole quantità di legumi secchi. La resa in termini di quintali di grano, per quello seminato in montagna anche rispettando alla regola le tradizioni del maggese, era abbastanza bassa rispetto alle rese ottenute nel fondovalle e nelle piagge sotto la Setteponti, il territorio della zona del Cocollo è terra da giaggiolo e non da grano. Nei terreni sopra alle frazioni montane del Pratomagno, dove oggi vengono coltivate soprattutto patate i terreni sono più sciolti e la resa sicuramente un po’ più alta.
Nella zona fra la Setteponti e il crinale del Cocollo i nostri nonni dicevano che la resa era di uno a dieci, cioè da uno staio di grano seminato ne venivano ricavati dieci, da questo possiamo fare un calcolo. Come riportato in un precedente post di Terre Alte, nella nostra montagna e nelle nostre colline i contadini non avevano dimestichezza con l’ettaro e metri quadrati, ma usavano lo staio che da misura di capacità diventava anche misura di superficie in quanto indicante l’estensione del terreno che veniva coperto con la semina di uno staio di cereali o legumi. Un nostro staio raso di grano contiene 18 kg di questo cereale che nella semina copre una superficie estesa 1750 mq (così sopra e sotto la Setteponti zona Malva), pertanto da uno staio di terreno si ricavano dieci staia di grano che sono 180 kg. Considerando che per fare un ettaro occorrono 5,7 staia di terreno, la resa in grano veniva di circa 10 q per ettaro. Questa resa è perfettamente in linea con quanto riportato nella prefazione del libro “Vicchio e il Mugello tra ‘800 e ‘900. Vita e storia di una comunità rurale” edito dal Centro Editoriale Toscano nel 1991.
Nella zona di Malva/ Persignano si è a lungo mantenuta la memoria della quantità di grano ottenuta nei poveri seminativi del podere Cocollo (m.800) in una raccolta degli anni ‘30 del secolo scorso, in seguito alla “battaglia del grano” del regime di allora, teso a raggiungere la sufficienza alimentare. Il fattore della tenuta di Poggitazzi, di cui il podere Cocollo faceva parte, divise con il mezzadro fino a 100 staia di grano (18q) e pur non essendo la battitura a mano ancora terminata, per premio regalò al mezzadro il rimanente grano ancora da spigolare e dividere (circa 2 q).
Un’ usanza della nostra montagna dovuta alla necessità e alla convenienza, era quella che prima di andare al molino a macinare, il grano veniva mescolato con altri prodotti tipo segale, vecce ma soprattutto fave e ceci. All’inizio di questo mio articolo ho scritto che il grano veniva seminato alcune volte insieme alla segale e alle vecce che maturano nello stesso periodo del grano e hanno una crescita meno delicata e più rustica, qui invece il cereale veniva mescolato con i legumi prima della macinazione e quando questa mescola avveniva, si diceva che il grano veniva “imbarbarito”, un abitudine e un termine linguistico che pur in forma dialettale ho ritrovato poi in alcune zone delle Alpi Liguri e Marittime. Un legume particolare ideale per terreni aridi di montagna che sappiamo, dall’antica memoria popolare tramandata, coltivato un tempo in zone limitate anche da noi era il “moco”, una varietà di cicerchia il cui fiore è entrato negli stornelli popolari del nostro territorio che i giovani cantavano alle ragazze e non è sbagliato pensare che l’insediamento agricolo di Mocale nei pressi della Lama debba la propria etimologia a questo antico legume.
Nella nostra zona sia di piano, collina e montagna, come in tutto il resto d’’Italia il momento difficile per il consumo della farina di grano, si ebbe negli ultimi tre decenni del XIX secolo con l’istituzione della tassa sul macinato, detta tassa sulla povertà. Questo balzello fece aumentare di molto il prezzo del pane insieme ad un aumento del dazio d’importazione del grano ed a un alto livello di speculazione commerciale, tanto che le classi sociali più povere, come i braccianti pigionali, si indirizzarono verso una alimentazione a base di farina di mais che aveva un costo nettamente più accessibile. Per questo ne derivò una sorta di monofagismo e comparve la malattia della “pellagra”, conosciuta bene nel Veneto e Friuli, ma quasi sconosciuta da noi anche se aveva fatto capolino con pochi casi nel periodo napoleonico.
Intorno al 1870 era ancora vivo il ricordo dell’epidemia di colera ( cholera morbus)che sconvolse tutta l’ Italia nel 1855-6 la quale provocò anche nei nostri paesi della Setteponti e del Pratomagno numerosi morti (basta vedere lo stato delle anime delle parrocchie compilato dai parroci dopo la benedizione pasquale), tanto che i frequenti funerali venivano fatti senza l’uso delle campane per non impaurire i malati e con una frettolosa cerimonia religiosa solo ai cimiteri, fra l’altro istituiti da pochi anni. In seguito a questa epidemia di colera, appena dopo l’Unità d’Italia, delle leggi apposite stabiliranno meglio la locazione dei cimiteri, la distanza dalle abitazioni e l’altezza del muro di cinta. Lo stesso metodo di funerale verrà poi applicato nei paesi della Setteponti e della montagna quando subito dopo la Grande Guerra arriverà l’epidemia di febbre spagnola. Dal libro di Moreno Massaini “Alto Casentino Papiano e Urbech, la Storia, i Fatti, la Gente”, edito nel 2015 dalla AGC sappiamo che nella provincia di Arezzo vi furono 3000 morti di colera, di cui 400 nel capoluogo e quindi l’arrivo della pellagra riportò indietro le lancette del tempo. La pellagra è una malattia della pelle non contagiosa ma molto pericolosa e mortale se non viene curata con una dieta adatta nel primo stadio patologico ed è dovuta alla deficienza alimentare di una vitamina (vitamina PP o B3) che non esiste nel mais ma che esiste nel grano, segale, orzo e in tutti i legumi.
Per quanto riguarda la nostra montagna e vallata credo non sia stata fatta alcuna ricerca su questa malattia, però per il Mugello che fu molto colpito da questo morbo ci sono dati certi fino al 1898-9 riportati sempre sul libro “Vicchio e il Mugello tra ‘800 e ‘900: Vita e storia di una comunità rurale”. Io ricordo benissimo che quando negli anni ‘50 del secolo scorso veniva ricordata la pellagra che colpì la popolazione fino al primo decennio del XX secolo, i volti dei nostri nonni, che avevano vissuto a pieno quel periodo, assumevano improvvisamente la faccia della paura. Sprazzi del vivere quotidiano, tradizioni, fatica, miseria e solitudine di una vita ormai diventata storia, che tuttavia ha lasciato tracce di inestimabile valore dove un chicco di grano oltre che di sole, neve e pioggia ci parla di vita vissuta non solo nel fondovalle ma anche in contesti geografici e sociali di alta collina e di montagna, dove l’esistenza era veramente dura.
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