Nel periodo romano, la località di Socana era al centro di un interessante sistema viario che permetteva ai romani di portarsi al nord del loro impero. Da Socana, come scrive il defunto prof Alberto Fatucchi, grande studioso e autore di un gran numero di pubblicazioni e conferenze in merito, passava la via Maior proveniente da Arezzo, una via importantissima che viene identificata (ma non tutti sono d’accordo) con la Via Flaminia Secunda o Minor (Flaminia Militare), la quale poi nei pressi di Filetto poco a nord di Strumi, dove il torrente Solano confluisce in Arno,si divideva in due tronconi. Quello a sinistra proseguiva per Fiesole e Firenze (via di Florentia), mentre il tronco a destra raggiungeva Stia, poi il laghetto degli Idoli per valicare il Falterona al Passo delle Crocicchie e scendere a San Godenzo in Mugello. Sempre da Socana transitava un’ importante strada che oltrepassato l’Arno presso Laterina in Valdarno , toccando a monte il luogo dove poi fu costruita la pieve di San Quirico, attraversava le colline che dividono il Valdarno dal Casentino presso il valico che oggi è chiamato “della Baselica”, oltrepassava il torrente Salutio a Talla, saliva ad Ornina, scendeva nella piana di Socana dove confluiva nella Via Maior. Questa via proveniente dal Valdarno, dopo San Quirico si divideva con un ramo che invece di proseguire per il Poggio della Baselica, transitava da Lucignanello, Spedale, Carra e a Lorenzano si immetteva nella Via Maior un po’ prima di Socana. Poco dopo Socana, nei pressi di Bacano , dalla Via Maior si staccava una strada che risalendo il fiume Archiano, toccava Marena, Partina, Camaldoli valicando l’Appennino al Giogo di Seccheta m. 1385, scendeva a San Paolo in Alpe nella zona di Ridracoli collegandosi poi a Santa Sofia con la strada che, superato il Passo del Carnaio proveniva da Bagno di Romagna nella valle del Savio. Poco a valle di Socana presso la località Montanina, una diramazione secondaria univa la Via Maior al Trebbio (Trivius), luogo sulla via che dal Casentino oltrepassando l’Appennino al valico di Serra m. 1149 portava in Romagna. Nel periodo romano la Via dell’Alpe di Serra confluiva nella Via Major presso Subbiano. Questa strada che diventerà importantissima nel Medioevo per il pellegrinaggio , subirà proprio in quel periodo alcune varianti in quella zona. Più controverso è invece il discorso sulla Via Abaversa che doveva superare la catena del Pratomagno in uno del valichi (Menzano o Reggello) per scendere nel Valdarno.
L’attraversamento dell’Arno era poi facilitato dall’esistenza di un ponte (ponte di Soka) nei pressi di Rassina.
L’importanza di queste strade era rilevante e proprio da queste strade scesero i “barbari” nel periodo del tardo impero romano e nel primo Medioevo , poi i pellegrini che andavano a Roma alla tomba di San Pietro.Da questa esposizione si capisce che Socana era una località transitata e importante in epoca romana. Dobbiamo inoltre considerare che molti insediamenti romani traevano origine da antichi insediamenti etruschi: Socana era uno di questi.
Il toponimo Socana può essere un prediale derivante dalla parola etrusca “Saukni”(principe, nobile personaggio etrusco, possidente terriero), però potrebbe derivare anche dalla parola etrusca “Sacni” che significa “luogo sacro, tempio”. Da considerare poi che la zona è piena di toponimi di derivazione sia etrusca che romana, sicuramente il toponimo più famoso di derivazione etrusca è Rassina derivante da Rasena o Rasna che è il nome che gli etruschi si erano dati nella loro lingua nativa . Il prof.re Fatucchi asseriva che il grande fascio di strade che convergevano a Socana, facevano supporre che quella località sia stata un importante centro etrusco ancor prima dell’invasione dei Galli, che nei secoli IV e III a.C. scesero in Casentino costringendo gli Etruschi a lasciare il fondo valle per arroccarsi sulle alture. Sulla dislocazione geografica del centro etrusco, in passato furono fatte ipotesi diverse da Socana, infatti alcuni studiosi pensavano che si trovasse nel poggio di Ornina, altri sul Poggio Magno,chi lo voleva sul monte di Oci e chi sul colle sopra la Montanina, da tenere presente che in tutte queste località sono stati trovati alcuni reperti etruschi di scarso valore, pur non avendo mai fatto scavi mirati.
Dal periodo etrusco Socana passò al periodo romano diventando un pagus con una lunga tradizione di culto etrusco-romana e poi al periodo paleocristiano quando per i cristiani era consuetudine utilizzare il tempio etrusco-romano preesistente per costruirvi un loro luogo di culto, forse una cappella o un piccolo oratorio. Di questa chiesetta paleocristiana però non è stata trovata traccia, infatti nella storia religiosa di Socana c’è una lacuna lunga quattro,cinque secoli. In seguito, per soddisfare forse le esigenze della popolazione, fu costruito un luogo di culto grande e funzionale. La successiva chiesa, fu iniziata a costruire nell’anno 901 e terminata prima dell’anno 1000, ne fa fede un documento trovato all’Archivio di Stato di Firenze nello scorso secolo che smentisce tutte le precedenti datazioni e secondo Monsignor Angelo Tafi è stata questa la prima chiesa plebana di Socana, la prima che si conosca, il tempio fu intitolato a San Antonino martire . Durante i lavori di restauro di fine anni ’60 del secolo scorso, diretti dall’architetto Albino Sechi della Sopraintendenza di Arezzo venne alla luce il primitivo impianto architettonico di questa prima chiesa plebana, triabsidato, diviso da filari di colonne, il pavimento formato da lastre di pietra e una gradinata. Era una chiesa di dimensioni notevoli, in quanto lunga circa 35 metri e larga 16 metri con 18 o venti colonne, il problema delle colonne è capire la loro provenienza (forse dal tempio etrusco) e dove sono andate a finire, perché di queste non è stato trovata traccia. Accanto all’edificio un bel campanile cilindrico sormontato da una costruzione poligonale ci potrebbe riportare ad un tipo di architettura ravennate, d’altra parte sono conosciuti gli intensi rapporti fra Arezzo e Ravenna attraverso la via Ariminensis che partiva proprio dalla città toscana, però alcuni ritengono la parte cilindrica del campanile i resti di un’antica torre romana di avvistamento. Si pensa che il materiale utilizzato per la costruzione della chiesa in parte sia stato prelevato dal tempio etrusco ( Don Alfio Scarini scrive che ancora sono visibili grandi pietre sulla destra della chiesa e del battistero), altro materiale fu invece estratto da cave vicine. Le maestranze che tirarono su la chiesa non erano sicuramente i famosi scalpellini lombardi, ma operai con bravi carpentieri del posto. Questa chiesa durò meno di due secoli perché fra il sec. XII –XIII fu costruita interamente sullo stesso posto una nuova grande chiesa dalle dimensioni uguali alla precedente. Non sappiamo il perché della necessità di costruire la nuova chiesa né della fine dell’altra più antica, forse distrutta da un incendio, un alluvione , da un terremoto o da qualche evento politico –militare. La nuova chiesa, che poi è quella attuale, fu costruita sempre a tre navate ma con una sola abside, con l’uso non più delle colonne ma di pilastri in muratura ,il tempio fu costruito con tre navate e con cinque campate , nel frattempo Socana era in collegamento con un’altra pieve importante ( Gropina nel Valdarno) mediante un antico tracciato che saliva a Carda, Badia Santa Trinità in Alpe, attraversava il Pratomagno a Monte Lori, scendeva all’Anciolina, Faeto e Gropina. I periodi di costruzione delle due chiese, la prima chiesa plebana e poi la successiva che, pur con grandi rimaneggiamenti è arrivata fino a noi, mette un po’in disaccordo Monsignor Angelo Tafi e Don Alfio Scarini che di Pieve a Socana fu parroco per un lungo tempo dal 1966.
La pieve nel corso dei secoli fu accorciata quasi della metà e la facciata venne rifatta, probabilmente il materiale lapideo avanzato fu usato per ingrandire la canonica e forse anche nella costruzione di alcune case del paese. Non sappiamo il motivo che fu alla base di questo ridimensionamento strutturale della chiesa, la tradizione orale tramandata dalla gente del posto dice che l’abbattimento delle prime due campate della chiesa sia avvenuto durante la permanenza nella valle del capitano di ventura Niccolò Piccinino, che nella prima metà del sec. XV mise a ferro e fuoco il Casentino durante la guerra fra i Visconti di Milano e i fiorentini.
Ma la tradizione orale popolare parlava anche di un tempio etrusco che sarebbe stato costruito nel luogo dove poi fu eretta la pieve e questa tradizione orale è arrivata fino ai giorni nostri.
Nel 1922-23 fu eseguito un intervento di restauro, intervento oggi abbastanza discutibile per l’intonacatura in cemento delle pareti interne e della facciata, internamente lasciando anche al centro, davanti al catino absidale il grande, pesante altare di fine seicento. Nel 1929 furono ritrovate fuori, nell’area dietro l’abside, due antefisse etrusche in terracotta ( le antefisse erano ornamenti usati da greci ed etruschi per fermare i tegoli all’estremità del tetto) . Per l’alluvione del 4 novembre 1966, la chiesa subì grosse infiltrazioni d’ acqua dal tetto tanto che nel 1967 iniziarono i lavori di restauro da parte della Sopraintendenza ai Monumenti che durarono fino al 1972, era parroco Don Alfio Scarini, storico e scrittore.
Nel 1969, questi lavori di restauro, consolidamento e sterro hanno portato alla luce un grande altare sacrificale con cornice, modanatura e il centro dove venivano bruciati gli animali uccisi in onore degli dei, l’altare è costruito con un tipo di pietra che non è presente nella zona. Con il procedere dei lavori fu visto che l’ara, in antico, era stata manomessa perché mancante della parte superiore. L’ara è stata parzialmente ricostruita, è a pianta rettangolare con un lunghezza di m. 4,99 e larghezza di m.3,75. e alta 1 m., è chiusa da un muro perimetrale (recinto sacro) che è costituito da enormi blocchi di tufo murati a secco. Durante gli scavi sono stati trovati nei pressi denti di cinghiale, di capretti e agnelli, indicanti gli animali che venivano sacrificati sopra l’altare alla divinità. Si pensa che in questo luogo venivano a portare doni agli dei gli etruschi che facevano parte della confederazione dell’Italia centrale (Casentino, Arezzo, Cortona e forse Chiusi). L’ara ha subito interventi di manutenzione e piccolo restauro nel 1986,1987 nel 1992 e un ultimo intervento di restauro conservativo nell’autunno 2015 realizzato dalla Sopraintendenza Archeoligica della Toscana, per forma rimanda all’ara del tempio della città etrusca di Marzabotto (BO), attestando così i rapporti che in epoca etrusca vi erano tra il territorio casentinese e l’Etruria Padana. Ricordo che di questa scoperta si occupò sia la stampa locale ma anche quella nazionale, in quanto era un’ ara etrusca unica del suo genere in Italia per bellezza, grandezza e stato di conservazione , un rinvenimento importante che mise in moto verso Pieve a Socana storici, studiosi e appassionati di etruscologia e archeologia. Era risaputo che gli altari sacrificali venivano costruiti davanti al tempio e quindi a Socana per tre anni fu cercato il tempio. Successive esplorazioni nel 1972 all’esterno dell’abside e nel terreno dove erano situate le altre due antiche absidi laterali della prima chiesa plebana e poi non ricostruite, misero in luce l’esistenza del tempio etrusco che purtroppo giace sotto la pavimentazione dell’attuale pieve. È stata invece scoperta una grande gradinata di accesso al tempio che consiste in almeno 12 scalini, inoltre sono venute alla luce numerose strutture murarie di cui alcune facenti riferimento a locali della chiesa, altre invece specifiche del tempio etrusco che risale al V secolo a.C., molto grande perché largo 18 m. e lungo circa 40 m., una costruzione veramente imponente. Particolare interessante sono state due grandi ruote di pietra con iscrizioni etrusche difficilmente decifrabili che costituiscono un eccezionale elemento votivo, forse da riferire al culto del Sole. Questi importanti reperti, insieme alle antefisse in terracotta e altro materiale etrusco ritrovato sono al Museo Archeologico di Arezzo.
Oggi l’ara sacrificale etrusca di Pieve a Socana, oltre a confermare la continuazione religiosa in quel luogo per circa 2500 anni, rappresenta una delle testimonianze più forti del popolo etrusco in Casentino, testimonianza che però è poco conosciuta e che se valorizzata bene nel contesto dell’armonia architettonica della pieve e della bellezza del paesaggio casentinese, servirebbe a rendere più celebre in Italia e nel mondo una parte di Toscana veramente bella e interessante.
Alla fine di questo mio articolo di Terre Alte, desidero ricordare un religioso, Don Domenico Pastorelli, che fu parroco di Pieve a Socana dal 1956 al 1966, subito antecedente al parroco Don Alfio Scarini. Don Domenico era nativo di Rassina e dal 1946 al 1956 resse la parrocchia di Persignano- Malva in Valdarno. Fu il parroco della mia infanzia, molto amato dalla popolazione e ancora oggi ricordato.
Foto e testo di Vannetto Vannini