Dall’abitato di Piandiscò per andare verso Reggello occorre attraversare il torrente Resco che proprio in prossimità del paese scorre nel fondo di una gola incassata. Nell’attuale tracciato della provinciale dei Sette Ponti, il Resco viene superato a circa 700 m dall’abitato con un ponte che è il più alto, dal fondo della gola al piano stradale, dei ponti di questa storica provinciale. Il ponte è chiamato “ Ponte nuovo” perché conserva ancora l’appellativo che ebbe quando fu costruito appena pochi anni dopo l’unità nazionale su un progetto già dei Lorena, che prevedeva il miglioramento viario della Sette Ponti. Se ne deduce che appena fuori Piandiscò e per alcuni chilometri, il tracciato viario originale era molto diverso da quello attuale.
Prima dell’ unità d’Italia ,dal paese di Piandiscò vi erano due itinerari per portarsi oltre Resco. Uno di questi, appena oltrepassato il paese e usato solo per il traffico di animali a soma , scende ancora al torrente con una ripida stradella lastricata in parte, oltrepassando il borro con il “ponte del Cova o di Annibale” (vedere Terre Alte – Piandiscò/Castelfranco) e risale, sempre molto ripidamente e in parte ancora lastricato in prossimità di Canova (Casa Nuova) dove anticamente vi era ubicato un “spedale” per pellegrini. L’altro percorso, più complicato ma più frequentato perché più agevole e adatto ai carri, partiva sulla destra ad alcune centinaia di metri da Piandiscò percorrendo all’inizio quella che era allora chiamata “Via dell’Alpe”, oltrepassato l’abitato di Campiano attraversava su un ponte precario e di legno il Resco per portarsi alla Cella, punto viario importante, e scendere a Casa Biondo. Di questo percorso ne parla un articolo a firma di Esther Diana su Corrispondenza del Luglio 1998: si snodava quel secondo tracciato che appare emergere dalla rivelazione dei funzionari della Magistratura: ovvero quella strada che , per le località Cella- Castagnola- Bologna ridiscendeva verso la Sette Ponti nel popolo della pieve di Cascia. Questo percorso, nonostante a questa data non dovesse ottemperare ad un traffico particolarmente intenso data l’angustia della sede stradale, lo troviamo nelle denuncie catastali del 1700 espressamente menzionato quale “Via maestra che va a Reggello “ (o a Pulicciano a seconda della direzione)o anche con la dizione “strada de’ Sette Ponti” attestando così la crescita di ruolo che tale via doveva aver raggiunto nel corso del tempo. In riferimento a questa zona, non è possibile dimenticare l’abitato di Menzano, al centro di una trama viaria di probabile origine romana ma affermatasi soprattutto nel periodo altomedievale in funzione della edificazione del castello di Castiglion della Corte dei Conti Guidi, sulla vetta del soprastante Poggio della Regina. Inoltre l’abitato di Menzano (una chiesa e poche case sparse) era sul percorso diretto all’antica badia di San Bartolommeo a Gastra, percorso che proseguendo poi sul crinale dell’Uomo di Sasso, si collegava a quella che nel Medioevo era la cosiddetta “Via della montagna” che univa l’abbazia di Vallombrosa, delle Prata e l’abbazia di Santa Trinità in Alpe. La zona di Menzano era venuta così a trovarsi quale tappa intermedia tra la viabilità di fondovalle e quella montana della catena del Pratomagno. Un ruolo di raccordo fra Valdarno e Casentino che si consolida con il passare dei secoli in rapporto all’aumentata importanza delle Via dei Sette Ponti.
Sempre su Corrispondenza, in una nota dell’articolo sopracitato in merito alla larghezza della strada di “mezza costa”, si legge che fra le località Cella e Bologna la via è detta pari a 3 braccia – poco più di un metro e mezzo di carreggiata – in contrapposizione alle 5 braccia segnalate dal percorso fino alla Cella e del tratto terminale da Bologna fino al confine con il popolo di Cascia. Il toponimo “Cella” deriva dalla presenza nel posto di “celle” o magazzini di derrate alimentari.
Questo tracciato nel 1780 fu modificato con la costruzione del ponte in muratura a due arcate (vedere Terre Alte – Castelfranco / Piandiscò), che attraversando il Resco portava a Cella evitando Campiano; questa modifica fu apportata per rendere più sicura la strada non passando sul precario ponte di legno di Campiano, spesso inagibile a causa delle piene del torrente e il piccolo ponte del Cova o di Annibale che era solo per il traffico a soma.
Nel tratto viario da Casa Biondo a Bologna, vi sono alcune testimonianze notevoli dell’importanza di questo tratto di antica Sette Ponti, purtroppo alcune fra le più interessanti attestazioni oggi sono solo un cumolo di macerie , altre presto lo diventeranno. Con il toponimo “Bologna ” viene designato l’aggregato di case appartenenti alla famiglia Sordi nel vecchio tratto della via dei Sette Ponti fra Casa Biondo e Casa Manno. Il prof. Porri, eminente studioso di storia locale e toponomastica ( per molti anni socio CAI) fa discendere il toponimo “Bologna” da una derivazione latina probabilmente legata a gruppi di persone provenienti dalla città emiliana e pertanto è presumibile che esistesse una “colonia” bolognese prima della costruzione della casa dei Sordi e dell’oratorio di San Francesco.

Proseguendo da Casa Biondo verso la località Bologna, oltrepassata sulla sinistra la bellissima colonica “La Castagnola” , casa rurale di gran pregio che ingloba una casa-torre del 1600, intorno alla quale è stato costruito in epoca leopoldina (fine 1700 e inizio 1800) l’attuale fabbricato oggi bisognoso di manutenzione, arriviamo all’insediamento rurale di Bologna. Bologna contiene una testimonianza architettonica perduta che è la casa colonica della famiglia Sordi, che insieme ai Bandini e ai Biondi di Casabiondo,i Papi a Casa Mora, i Cherici a Casa Chierico erano grossi proprietari terrieri di consistenza e ceto sociale tale da fare diventare le loro residenze, quegli agglomerati che ancora oggi caratterizzano ambiente e toponomastica.

La casa dei Sordi a Bologna non era solo una casa colonica, ma una casa signorile con tre ordini di grandi arcate (ingresso e piani superiori) dove, in modo particolare nelle colonne, negli archi, nella cantonate,ma soprattutto nei caminetti, negli scalini, nelle cantine e nelle stalle, il lavoro di rifinitura degli scalpellini era di una fattura pregevolissima. Oggi tutte queste pietre sapientemente lavorate da artisti lapidei locali, fanno parte di quel cumulo di macerie che si è formato in quel giorno dell’estate 1997 per il crollo di tutto l’edificio che da decenni aveva bisogno di manutenzione. Il grande edificio èra stato abbandonato da tempo perché i diversi proprietari non si trovavano d’accordo per il restauro.
Noi del CAI Valdarno abbiamo visto l’edificio pericolante, e qualcuno (diversi) è salito fino al primo piano ammirando nella grande cucina un bellissimo caminetto tutto in pietra lavorata. Questo avvenne durante l’ escursione pomeridiana alla quale parteciparono oltre 80 soci (25 Aprile 1997 e decennale del CAI Valdarno) che dette inizio alla stagione della “Commissione Cultura del Territorio” durata alcuni anni ( Vannini Vannetto, Paolo Debolini, Maura Barucci e Sonia Auzzi). Purtroppo non so se esistono foto dell’edificio , ho trovato un disegno nel numero 34 di Corrispondenza nell’articolo firmato da Esther Diana, disegno che riporto in questo post di Terre Alte.

Nei pressi della casa vi è ancora, ricoperta dalla vegetazione, una pregevole fontana scolpita in un blocco di pietra serena, sullo stile di quella bella fontana, ora adibita a edicola sacra, che si trova a casa Biondo. Ma la testimonianza importante è che davanti ai ruderi della casa vi è ancora in piedi, ma molto cadente, l’ oratorio privato della famiglia Sordi, dedicato a San Francesco e costruito nel 1704. Di questo oratorio trascriviamo una scheda della dott.ssa Fabrizia Landi riportata in una nota del volume “Piandiscò, un borgo e la sua pieve” edito dal Servizio Editoriale Fiesolano nell’anno 2000. “ D’ impianto comune a molti edifici sei-settecenteschi (facciata a capanna con portale affiancato da finestre quadrangolari e sormontato da un oculo), la cappella di Bologna ha un interno di gusto semplice secondo lo stile francescano, soffitto a capriate decorato a cassettoni in cotto (di restauro) e un grande altare a volute con iscrizione dedicatoria ai due santi; ai lati due armadi a muro e al centro una grande tela danneggiata dall’umidità con l’incontro tra San Francesco e San Domenico, angeli e cherubini. Alle pareti resti di affreschi e false specchiature, dipinte all’inizio del Novecento con le fasce decorative in alto; secondo la tradizione locale l’autore dei restauri sarebbe Raffaello Colombo.
La tela d’altare raffigura i due Santi che si abbracciano su uno sfondo di architetture classicheggianti, al cospetto di una gloria d’angeli trattati con grazia tutta settecentesca; sulla destra uno stemma con scudo ovale e cartocci celebra la casata dei Sordi committente dell’opera: È d’azzurro, alla banda d’oro accostata da due uccelli dello stesso (queste figure araldiche non sono ben visibili a distanza; l’assenza del proprietario non ha permesso di accedere alla cappella). Il dipinto è in condizioni cattive, ma non irrecuperabili; aumentando il rischio di infiltrazioni; il cornicione del timpano, crollato quasi del tutto, completa questo penoso “cahier de doleances”. Sarebbe auspicabile che qualche provvedimento venisse preso per evitare alla cappella lo stesso destino della colonica dirimpetto; pericolo in cui versa anche la bella fontana d’impianto tardo seicentesco che fa parte del complesso interamente in pietra con nicchia a conchiglione e testa leonina sormontata da volute; nella chiave di volta della riquadratura è inciso l’anno 1672, mentre il 1879 su un concio a sinistra si riferisce a un esteso intervento che ha interessato tra l’altro l’arco a bugnato rustico.

Purtroppo, come visibile dalle foto scattate durante l’escursione di “Quelli del Martedì” del 14 Maggio scorso, la situazione è ancora peggiorata e l’oratorio di San Francesco di Bologna è veramente in una situazione statica molto critica e pericolosa.
Foto e testo di Vannetto Vannini