Il gelso (moro), albero storico della nostra montagna e campagna.

Loro Ciuffenna Terre Alte Valdarno

(Il moro bianco di San Clemente in Valle- Loro Ciuffenna, decano di tutti i gelsi della nostra montagna )

Nelle nostre campagne, dal piano alla collina, esistono  ancora molte piante di gelso (moro), si trovano singole o ancora in filari ordinati lungo la stradelle campestri o nei dintorni delle  case coloniche,case  in genere oggi ristrutturate e molte  trasformate  in ville. Insieme all’olivo e al cipresso, il moro  è ancora oggi  elemento caratteristico della fisionomia delle campagne toscane in quanto le foglie di questa pianta rappresentavano  l’unico nutrimento per il baco da seta, quando questo allevamento era  importante economicamente e per questo praticato da molti sul piano artigianale e familiare. Il moro, altre a essere stato  un albero utilissimo  fino all’immediato secondo dopo guerra, è una pianta maestosa, bellissima e già questo, unito al ricordo di  elemento indispensabile nell’economia rurale  di un’epoca passata, dovrebbe stimolare l’autorità (se non lo hanno già fatto) di rendere protette le piante che ancora oggi rimangono nella nostra campagna. Quelle che rimangono sono ormai piante secolari o quasi, perchè  messe a dimora tutte negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, solo da qualche anno piantine di gelso si ritrovano nei vivai e vengono piantate nei giardini delle case rurali restaurate, sia per i frutti ma soprattutto per la bellezza e la storia che si porta dietro questa magnifica  pianta che può essere del genere  Morus Alba (Moro Bianco) o Morus Nigra (Moro Nero). La differenza fra le due specie di moro è che le foglie del moro bianco erano più appetibili ai bachi da seta, un po’ meno quelle del moro nero in quanto molto più ruvide. Oggi, molte delle  rimanenti piante più secolari, hanno tronchi contorti e pieni di cavità, e  ciò è dovuto  alle potature radicali  alle quali  periodicamente venivano sottoposte queste piante perché nei rami giovani, le preziose foglie erano più vermiglie, sane e numerose . Dell ’importanza di  questa pianta nei secoli passati esistono negli archivi comunali documenti storici che attestano  come le autorità civili di alcuni paesi del nostro Pratomagno, già nei secoli XVII e XVIII (Castelfranco di Sopra,  Castel San Niccolo ) si facevano carico, in linea con le leggi del governo centrale, di promulgare delle norme per la salvaguardia delle piante di moro esistenti e per la messa a dimora di nuove piante.  Per parlare della pianta di moro, però occorre fare riferimento anche alla cultura del baco da seta (bachicoltura) che,  fino ad un passato recente, era estesa in tutta Italia e quindi anche nella nostra vallata e nella nostra montagna.

Un punto a favore per l’introduzione in Europa dall’Oriente della bachicoltura   è la profonda crisi che colpisce il vecchio continente nei primi decenni del XIV secolo, a causa delle guerre e  delle devastanti carestie  di cui ne sono la conseguenza. La pesante  situazione economica fa si che il mondo agricolo debba individuare nuove coltivazioni da  affiancare a quelle già esistenti per avere un ventaglio di produzione agraria più varia in modo da garantire una maggiore possibilità di reddito per il sostentamento. Ecco  allora la coltivazione   in maniera massiccia delle prime piante tessili come lino, canapa e il gelso.

Il commercio  e la lavorazione della seta in certe zone diventa prioritario  e identificativo di una zona. In Toscana, Lucca nei secoli XII-XIII è famosa per la lavorazione della seta che compone i “diaspri” di cui si parla molto nei poemi provenzali del  XII e XIII secolo, Firenze, città nella quale la lavorazione della seta viene effettuata  in massima parte nei conventi di suore di clausura e da tessitori lucchesi emigrati nella Città del Fiore. Ma poi abbiamo Genova e Venezia, che già nel XI secolo crea a salvaguardia dei  produttori di seta, detti “Samiteri “ (i tessitori d’oro) un proprio statuto. La bachicoltura, e di  conseguenza la coltivazione della pianta di  moro, che era già presente in modo  sporadico nei secoli X e XI nell’Italia meridionale, prendono così avvio in maniera ordinata e regolare. Dopo la crisi dei primi decenni del XIV secolo  arriva poi una ripresa economica, prima lenta ma  dopo molto consistente e sempre più si assiste ad una crescente domanda di tessuti di lusso, tanto che le antiche manifatture della lana e del cotone sono sostituite da quelle seriche.

Come logica conseguenza di questa nuova attività si ha una estensione nella campagna toscana, soprattutto nelle zone collinari, della coltura del gelso. Dai vari  stati che tendono a favorire questa coltivazione , durante i secoli XVI, XVII e XVIII  vengono emanate leggi che tendono a favorire la coltivazione della pianta di moro. Sappiamo che nel territorio  intorno a Firenze, si fa obbligo ai contadini di piantare ogni anno almeno cinque piante di moro per ogni staio di terreno, fino a raggiungere la quantità minima di cinquanta alberi, fra l’altro si proibisce l’esportazione della foglia fuori dal territorio del Granducato  e si tolgono i dazi a chi invece la compra e la trasporta all’interno del Granducato stesso. Una legge granducale  del 6 febbraio 1781 consente ai proprietari  di terreni limitrofi a strade pubbliche, piena facoltà di piantare gelsi lungo i bordi stradali. Però nonostante queste leggi protettive, si continua sempre a piantare i gelsi in genere  lungo i bordi dei campi , nelle aie e lungo i fossi campestri. In Toscana solo nella Valdinievole perché prossima a Lucca e poi nella Valdichiana bonificata si ha uno sviluppo intensivo del gelso, soprattutto di quello “bianco” (Morus Alba). Sappiamo da fonti storiche che a Firenze, fra il 1430 e il 1447, nell’arco cioè di 18 anni, la produzione serica quintuplicò e negli stessi anni i setaioli assunsero un ruolo determinante all’intero della corporazione dell’Arte di Por Santa Maria, tanto che questa cominciò ad essere chiamata “Arte della Seta”. Sempre a Firenze, nel corso del XV secolo furono emessi dalle autorità diversi bandi per evitare che artigiani della seta emigrassero in altre città e in contemporanea fu bandita una legge che graziava quei tessitori fuggitivi che avessero deciso di rientrare a Firenze. Nei secoli XVI e XVII a Firenze, come nel resto d’Italia, sorsero diverse manifatture seriche che trasformavano in tessuto prezioso i bozzoli provenienti dalla bachicoltura , ma era soprattutto la città di Lucca (Serenissima Repubblica di Lucca) il fulcro della lavorazione della seta,  basti pensare che il colossale impegno finanziario dovuto alla costruzione delle monumentali mura di Lucca, fu dovuto proprio ai proventi del commercio della seta. Anche Firenze diventò un centro di produzione della seta e dei tessuti di seta molto rilevante, tanto che a causa della crisi dei  lanifici, l’industria della seta diventò la più importante. Sappiamo da documenti storici che nel secolo XVII, esattamente nel censimento dell’Arte della Seta del 1663, in città 15.000  persone su un totale di  75.000  abitanti,  traevano sostentamento  dalla produzione, lavorazione e commercio della seta. Il mercato richiedeva sempre più tessuti di seta e questo permise di affinare poi il metodo produttivo che permetteva di trasformare il bozzolo in filo di seta e poi tessuto. Nel Ducato di Toscana, poi Granducato si passa da una produzione del 1440 di 34 quintali di seta greggia a una produzione di 100 q. nel 1550 arrivando poi a 815 q. nel 1781.  La bachicoltura è favorita anche da metà del secolo XVIII in poi dai nuovi ambienti creati nelle case  leopoldine che prevedevano  locali asciutti, puliti e aerati  per un allevamento razionale.  Filande, dove lavoravano decine e decine di persone, furono costruite un po’ in ogni territorio, soprattutto in Casentino e in Valdichiana dove a  metà dell ‘800 si contava una quantità sterminata di piante di moro bianco . In questo periodo la bachicoltura è interessata da un grande processo di razionalizzazione e di ammodernamento tecnologico, nel decennio fra il 1840 e il 1850 si raggiunge la massima espansione dell’allevamento del baco da seta e nello stesso periodo la Penisola italiana è il secondo produttore al mondo dopo il Giappone. Rimangono ancora delle zone di ombra in questa produzione, soprattutto nella conservazione del seme che veniva tenuto nella stalla, sotto i letti, ma soprattutto in seno alle donne, ed   era  questo un metodo idoneo per garantire un riscaldamento continuo e costante intorno ai 18 ° C. Anche nel Valdarno la produzione della seta divenne importante sia per i contadini  che portavano avanti questo lavoro senza allontanarsi dalle mura domestiche, sia per la manovalanza, soprattutto donne. Nel Valdarno Superiore esistono ancora numerosi  locali che fino al periodo della grande guerra lavoravano i bozzoli producendo filato e che hanno conservato il vecchio appellativo “Filanda”.

 Proprio in questo periodo fa la comparsa la “Pebrina”, una malattia epidemica  che colpisce il baco da seta  e interrompe  bruscamente la crescita del comparto sericolo in tutta Europa. La malattia dilaga in modo inarrestabile in Francia, Spagna e Italia ed infetta tutti gli allevamenti, la perdita per gli allevatori è gravissima in quanto la malattia si manifesta durante l’ultima fase di vita del ciclo del baco, quando tutti i capitali sono stai impiegati nell’impresa e non c’è alcun modo di recuperarli. Nel 1870 Louis Pasteur non trova la cura, ma scopre il rimedio per prevenire la pebrina. È una cosa molto difficile da spiegare, in quanto viene fatta una cernita al microscopio delle uova  deposte dalle farfalle derivanti per metamorfosi dal baco, in effetti è una selezione del seme, nasce così un nuovo tipo di lavoro che è il “semaio”, colui che vende i semi “buoni” di farfalle. Ma sia con l’arrivo della “pebrina”, sia  per altre cause contingenti al periodo(fine ‘800 e inizio ‘900),  come l’arrivo della diaspis pentagona, una cocciniglia che decimò i gelsi, ma soprattutto con la commercializzazione della seta artificiale ottenuta già nel 1911 con il sistema chimico “Bemberg”, la  produzione dei bachi da seta, pur rimanendo ancora una attività importante per gli agricoltori, lentamente cala ogni anno fino a scomparire del tutto negli anni immediati del secondo dopo guerra. Per dovere informativo posso dire che a Persignano l’ultimo allevamento di bachi da seta fu fatto nelle scuole elementari nel 1953, fruttò £ 12.000, impiegate tutte per comprare  una radio Marelli per la  Classe Seconda (Maestra Anita  Papi- Santiccioli ).

Tornando alla gelsicoltura, fin dal 1450  viene preferito il Morus Alba (Moro Bianco) al Morus Nigra (Moro Nero), sembra per un maggiore appetito del baco nei confronti della foglia di moro bianco . Questo vantaggio  non è però riconosciuto unanimemente, dal momento che molte testimonianze sette- ottocentesche considerano la foglia del moro nero non inferiore qualitativamente di quella del moro bianco. Alcuni agronomi spiegano la preferenza dei contadini per il moro bianco, in quanto questo  cresce, diventando pianta adulta fruttifera, ad una velocità maggiore di quella del moro nero. Per avere una piantina di moro (sia bianco che nero)gli agricoltori avevano scartato la piantagione per seme perché richiedeva troppo tempo, per talea non dava i risultati sperati in quanto la pianta ottenuta era debole di radici. Il metodo preferito per ottenere una nuova piantina di moro era il sistema per “propaggine”, cioè, pur rimanendoli attaccati alla pianta,  piegare  i ramoscelli più lunghi e mettere sotto terra una parte dello stesso ramoscello, attendendo che nella parte interrata del ramo, questi mettesse radici autonome, diverse da quelle della pianta madre. A questo punto era possibile recidere  il ramoscello, che dava così luogo ad una nuova pianta. Quando la pianta era adulta, doveva essere potata in genere ad anni alterni, potatura che serviva per limitare l’estensione della pianta e favorire la raccolta della foglia. In alcune zone della nostra vallata, i mezzadri non potavano i gelsi, ma li facevano potare da persone terze specializzate che venivano ripagate non in soldi ma con la legna tagliata per la  potatura del moro. Succedeva allora che chi potava aveva tutto l’interesse a tagliare più rami possibili e allora la pianta veniva sacrificata nella produzione di foglie, per questa ragione quando un contadino prendeva a mezzadria un podere, fra i patti fra mezzadro e proprietario c’era l’impegno da parte dell’agricoltore che le piante di moro fossero potate da lui stesso o da qualcuno della famiglia contadina.  Nel contratto di mezzadria inoltre veniva specificato bene se al mezzadro spettasse o no per diritto una certa quantità di  foglia di moro  per alimentare i bachi coltivati, in genere nelle nostre zone della Sette Ponti al mezzadro veniva concesso  un quarto della quantità di foglia prodotta dal moro, ma alcuni proprietari esigevano che il mezzadro consegnasse la foglia totalmente al possessore del fondo, il quale poteva rivenderla al mezzadro stesso o ad acquirenti al mercato libero, in questo caso però l’attenzione che il mezzadro spettava alle piante di moro, da cui non ricavava alcun profitto, era minima e ha scapito della salute della pianta.  Quello del mercato della foglia di moro è sempre stato un mercato molto attivo nel periodo  favorevole dell’anno, aveva un suo prezzo annuo ricavato dalla quantità di produzione e dalla richiesta, ma la compravendita delle foglie di moro avveniva solo a brevi distanze per via della sua elevata deperibilità. In Valdarno le maggiori contrattazioni di foglia di moro avvenivano la Domenica a Castelfranco di Sopra e il Lunedì al mercato di Loro Ciuffenna. Una pianta adulta di moro,  coltivata con tutte le cure necessarie, poteva  superare anche di parecchio una produzione di  cento Kg all’anno di foglia. Più le foglie era belle vermiglie più i bachi crescevano bene: le foglie venivano raccolte due volte il giorno ed erano date in pasto ai bachi tagliate sempre più grossolanamente fino a che essi non mangiavano la foglia intera. Le foglie erano raccolte dalle donne il giorno o la sera, poichè dovevano essere fresche, sane e mai bagnate, altrimenti i bachi sarebbero morti.

  Il decano delle piante di moro  della nostra montagna è il moro (Gelsus  Alba)  bianco  che si trova nella piazzetta di San Clemente in Valle  nel comune di Loro Ciuffenna. È una pianta secolare veramente monumentale ancora in ottimo stato vegetativo, in quanto gli abitanti del paese curano questa pianta e la potano con potature ogni tre anni, in quanto la pianta di moro, se lasciata andare e non potata, con il tempo soffre, si perde e si secca.

Durante le nostre escursioni in zona, quando incontriamo i residui filari di moro o qualche pianta isolata, si capisce bene che quell’albero parla di storia, di storia della nostra vallata, di storia di famiglie contadine,di sacrifici, di attenzioni, di amore per una cultura che oggi non esiste più, ma che i nostri nonni hanno portato avanti con coraggio, tenacia , sapienza e amore   come può dare solo  un agricoltore .

                                                                                                                 

Testo e foto di Vannetto Vannini

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