Monte Cocollo. Diversità dell’architettura abitativa fra il versante che guarda la valle (nord-ovest) e il versante che guarda il Ciuffenna (nord-est)

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Testo e foto di Vannetto Vannini

Il versante del monte Cocollo orientato a nord ovest che guarda il corso dell’Arno   e i monti del Chianti, è delimitato in basso dal percorso della Setteponti nel tratto che si svolge sul filo superiore argilloso delle balze fra Loro Ciuffenna e   Castelfranco di Sopra, interessando i paesi di Montemarciano, Montalto, Poggitazzi, Malva, Persignano, Piantravigne e Certignano. Questa parte di montagna è aperta, ricca di sorgenti d’acqua, molto soleggiata con estese coltivazioni   fino ai 600 metri di quota, un tempo coltivata anche fin sulla vetta, soprattutto sul largo crinale verso Mondrago, nonostante questo non è priva né di   selve né di bosco ceduo. I venti prevenienti dal Tirreno seguendo il corso dell’Arno e che superano lo sbarramento delle colline fiorentine nei pressi di San Donato in Collina climatizzano questo versante creando le condizioni per la coltivazione dell’olivo, della vite, per la   crescita dell’erica, della ginestra spinosa e del corbezzolo. Non vi sono grosse borgate ma solo   piccoli   insediamenti quali Oliveto, Querceto, Vignale, Laconia, Casarotta, Odina, Caspri, la Lama, Galligiano e molte case sparse. Con l’antica viabilità medievale e oggi con i sentieri CAI la popolazione di questi piccoli insediamenti   ha sempre mantenuto nel tempo stretti legami   con le frazioni montane situate oltre il crinale   nel versante nord est, che interessa il bacino del Ciuffenna, molto più boscoso, meno coltivato, più freddo e   a ridosso del Pratomagno.

Monte Cocollo, versante nord-ovest
Monte Cocollo: versante nord-est

Fra questi due versanti del monte Cocollo, anche a parità di quota altimetrica vi sono caratteristiche abitative, coltivative e viarie che si differenziano molto. Nel versante che guarda la valle, la   strada comunale Loro /Odina che non è altro la storica strada montana Pulicciano-Caspri/Loro Ciuffenna, alternativa alla Setteponti per gli abitanti del Cocollo, ha svolto nel tempo un grande ruolo comunicativo trasversale da nord a sud e tramite stradelli di raccordo (come i sentieri CAI 35 e 20) fino al secondo dopoguerra, ha reso facile le   comunicazioni di questo versante con i paesi della Setteponti.  L’elemento di differenziazione fra i due versanti , quello gravitante sulla vallata e quello sul bacino del Ciuffenna con le sue profonde boscose, incoltivabili   vallecole  con  dietro la dorsale principale del Pratomagno, è da ricercarsi nella morfologia del terreno che ha condizionato  per secoli l’attività umana, soprattutto agricola e forestale, che poi ha influito sull’architettura delle case e nella dislocazione dei complessi abitativi, raggruppati in grosse  borgate nel versante del Ciuffenna, in piccoli insediamenti  talvolta sparsi e isolati nel versante che guarda la valle. Elemento di distinzione fra i due versanti è stata la conduzione poderale a mezzadria esistente in maniera massiccia nel versante del Cocollo che guarda il fiume Arno, inesistente nel versante di nord est dove nel tempo si è affermata in genere la piccola proprietà terriera i cui raccolti non erano però sufficienti per vivere tutto l’anno, integrati quindi da lavori stagionali. Importante nel versante nord est e nelle pendici del Pratomagno l’allevamento degli ovini con relativa transumanza in Maremma, mentre nel versante sud ovest l’allevamento ovino era presente in misura molto ridotta, solo per le necessità familiari e senza transumanza.   Da Loro Ciuffenna a Castelfranco di Sopra per secoli vi sono state e in parte ancora oggi delle grosse aziende agrarie come la fattoria di Poggitazzi, quella di Santa Maria alla Badiola, la fattoria di Piantravigne, la fattoria di Certignano, quella del Cerreto che hanno dato un indirizzo comune per la conduzione poderale, confacente al sistema a terrazzamenti costruiti nei secoli passati e sulla costruzione delle case. Queste case sono molto diverse come volume, architettura e materiali dalle abitazioni del versante nord est del Cocollo e relative frazioni montane.  Da tenere presente che la conduzione a mezzadria nel versante del monte che guarda la valle e l’Arno era quasi totale, arrivando fino sotto la vetta del monte con il podere Cocollo m 800 (fattoria Poggitazzi e poi Conte Colloredo), i Pianacci sopra a Vignale (fattoria Santa Maria), il podere Bassi. Gli insediamenti montani di Casarotta, Leconia, Odina, Querceto, Oliveto erano costituiti quasi essenzialmente da poderi a mezzadria facenti capo ad una fattoria. La fattoria è sempre stata il centro pulsante della azienda, il luogo dove esisteva il frantoio, vicino un molino, il fabbro, il falegname, i muratori che fungevano anche da scalpellini e gestivano qualche cava di pietra ed erano esperti nella cottura dei sassi di calcare per fabbricare la calce; ogni fattoria aveva soprattutto una fornace per materiale da costruzione.  Da notare che ogni fattoria sulla linea Setteponti/Balze aveva un podere chiamato “Podere Fornace” perché era quello il luogo dove nei pressi avveniva l’estrazione di argilla individuata in un filone esterno o interno ad una o più balze, argilla che messa in apposite forme di legno veniva seccata al sole e diventava mattoni, tegole, embrici e serviva per la costruzione delle case della fattoria anche in montagna.  Nella nostra carta CAI del Pratomagno 1:25000, appena sotto Piantravigne, è riportata a quota 245 m la Fornace Collaino che ha lavorato fino al 1965 con alcuni operai fissi, producendo soprattutto mattoni e tegole seccandoli all’aria in lunghi piani sopraelevati di legno che venivano coperti o scoperti in base alle condizioni meteo. La creta veniva prelevata anche in quella balza a sinistra lungo la strada per chi sale al paese, balza dove all’interno, causa l’asportazione del materiale, vi sono delle grosse cavità che destano ancora oggi un po’ di curiosità alla gente che passa. E proprio l’appartenenza ad una fattoria era il motivo per cui case, capanne, seccatoi, casotti costruiti nel versante del Cocollo che guarda la valle avevano il tetto di tegolini, oltre le cantonate angolari delle abitazioni molto solide con pietre regolari scalpellate, come pure le soglie delle porte e finestre costruite in pietra serena modellata dagli scalpellini della fattoria. Inoltre le case del versante del Cocollo che guarda la valle hanno sempre avuto, anche a quota oltre i 600 m grandi ampiezze rispetto alla case del versante del   nord est, in quanto abitate da famiglie più numerose in relazione alla superficie coltivabile del podere che era grande, includendo alcuni appezzamenti di seminativi (piagge) a grano e cereali ubicati anche molto sotto la linea della Setteponti. Nel versante nord est del Cocollo, oltre ad essere più piccole, più basse, con le finestre rivolte ai quadranti favorevoli in fatto di soleggiamento e correnti del vento e pareti piene rivolte a nord, le case erano coperte essenzialmente di lastre e non di tegolini, un’usanza che si ritrova in altre zone montuose italiane acquistando un elevato interesse comune.  Il tetto è una delle parti più delicate dell’abitazione, soprattutto in tempi in cui i mezzi a disposizione erano scarsi e occorreva, come in montagna, usare i materiali presenti nel territorio. La copertura della casa doveva essere fatta a regola d’arte, il tetto doveva proteggere le persone, gli animali e le cose e non dovevano esserci infiltrazioni durante le piogge e durante lo scioglimento delle nevi. Esclusi per difficoltà di trasporto i tegolini, le case del versante del Coccollo esposto a nord est erano soprattutto ricoperte di pietra a lastre   reperite in loco, in quanto in zona vi sono estese formazioni di pietra arenaria stratificata e grossi massi isolati, sempre di arenaria, caratterizzati da una tessitura lamellare abbastanza marcata che tende a sfaldarsi facilmente in lastre sottili. Queste strutture lamellari sono il risultato della trasformazione di argilla sottoposta ad alte pressioni e temperature, nelle quali i cristalli filosilicati presenti si ordinano in una direzione precisa creando delle falde dette “piani di scistosità”. Queste formazioni e questi massi sono molto frequenti nel versante nord est, una volta individuati venivano lavorati con appositi strumenti a taglio e con cura. Le lastre venivano portate giù o su con l’asino o il mulo, in assenza di questi animali era usanza che le lastre le portassero le donne della famiglia.

Fra le lastre usate qualche volta si trovano anche quelle ricavate dalla pietra alberese, ma sono piuttosto rare perché hanno uno spessore maggiore e sono molto più pesanti (questo tipo di pietra è   più calcareo con una percentuale di carbonato di calcio   che può arrivare all’85%).  Le pietre di alberese venivano usate soprattutto come pavimentazione nelle stalle, i sassi erano ottimi per produrre la calce nelle apposite fornaci. L’orditura del tetto coperto a lastre doveva essere più robusta di quello coperto a tegolini ed era sempre realizzata con resistenti travi di rovere o castagno e massicci travetti, sempre di castagno. Costruire un tetto di lastre era una tecnica difficile non alla portata di tutti, un patrimonio non indifferente di pratica, ragionamento, adattamento e conoscenze. In genere le lastre più grandi e spesse e quindi più pesanti, venivano messe ai bordi del tetto sporgenti circa 20 cm all’esterno per proteggere la travatura e le rimanenti disposte in più ordini, in cui le lastre erano parzialmente sovrapposte secondo un criterio, in modo che l’acqua piovana potesse scorrere da una lastra all’altra senza penetrare all’interno per    infiltrazione. Nell’arco alpino le pietre di copertura sono chiamate “lose” (tetti di lose), che è una voce dialettale derivante da “lastra”.

   Nel versante del Cocollo che guarda la valle non si trovano le formazioni di arenaria stratificata e i massi scistosi, si trova l’arenaria in blocchi estratta da diverse cave e qualche rara cava di alberese che, abbandonate nel periodo fra le due guerre, ripresero nel secondo dopo guerra fino agli anni ’60, per fornire materiale lapideo alla ricostruzione dell’Italia distrutta.

 Inoltre, nella nostra montagna non vi è mai stata la tradizione di coprire i tetti delle case con pianelle di legno (scandole), usanza molto radicata nelle Alpi, soprattutto nelle Dolomiti, in Carnia e in qualche rara zona dell’Appennino.  La scandola resiste bene al tempo e all’usura se fatta di legno di larice e da noi questo tipo di pianta, molto forte, non cresce.

Con gli anni ’50 e la fine della civiltà del castagno, iniziò l’abbandono della montagna con una diminuzione consistente della popolazione. Molte case rimasero vuote, senza manutenzione e sottoposte a crolli, poi dopo la metà degli anni ’70 quando le vie di comunicazione fra la Setteponti e le frazioni montane del Pratomagno diventarono buone, iniziò lentamente il restauro delle case dai vecchi e nuovi proprietari e i nostri paesini montani ripresero a vivere, soprattutto d’estate. Nel restauro, per  forza di cose  la prima cosa che spariva era il vecchio tetto di pietre piane , sostituite da rossi scintillanti tegolini;  ricordo bene le cataste di lastre provenienti dagli antichi tetti, ammucchiate per anni nei pressi delle case  tornate a nuova vita e che  qualche proprietario ancora  conserva, perché quelle lastre hanno  per il montanaro un’ importanza  enorme che va al di là   del ricordo  per assumere  un significato  che  viene recepito solo da chi ha abitato quella casa.  Chiunque capisce che c’è una certa incompatibilità fra i vecchi muri delle casette che si reggono a vicenda, muri anneriti dal tempo dove le pietre hanno la patina dei secoli   e il colore rosso vivo del laterizio dei tetti, che dalla cima della montagna fa individuare subito la posizione geografica dell’abitato. Qualche tetto di lastre rimane   soprattutto a Rocca Ricciarda, assolvendo ancora bene la vecchia funzione di un tempo. Rimane sempre con l’antico tetto   qualche precario seccatoio all’Anciolina e un    ancor più precario gruppo di seccatoi sotto la vetta del Cocollo (Le Seccatoie), testimonianze di un passato recente di cui è bene conservare il ricordo. Oltre al ricordo sarebbe bene conservare anche l’opera materiale che ci ha lasciato una civiltà durata secoli e terminata appena ieri.

Esempi di tetti

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