Testo e foto di Vannetto Vannini
Introduzione
Nel territorio del Pratomagno, negli appezzamenti non usati per le varie coltivazioni a rotazione annuale come cereali, legumi, pascolo e ubicati dai 300/350 m di altezza, appena sopra la Setteponti fino in alta collina e poi montagna a circa 900/1000 m di quota e anche oltre, il castagno è ancora l’albero più frequente, anche se la roverella negli ultimi decenni ha colonizzato in gran parte i coltivi a terrazze abbandonati. Fino a metà del secolo scorso la quasi totalità dei nostri paesi di montagna erano circondati interamente da rigogliosi boschi di castagni chiamati “selve”, termine con il quale si indicava e ancora viene indicato dalle persone anziane un bosco formato da soli castagni domestici da frutto.

Oggi i resti di queste selve circondano ancora i paesi del Pratomagno, ma pur predominando sempre il castagno sono in condizioni di semiabbandono o abbandono completo, fra l’altro lo stesso castagno domestico, non più curato, ha generato dalle radici dei polloni e nel tronco sotto l’innestatura dei grossi rami , polloni e rami della stessa qualità del portainnesto e quindi di razza selvatica; inoltre la stessa parte domestica della pianta sopra all’innesto è in grande sofferenza e poco produttiva non essendo più curata con l’asportazione dei rami secchi, operazione che prima veniva eseguita ogni cinque anni; il mal dell’inchiostro e altre malattie recenti hanno poi fatto altro danno.
L’ampiezza delle selve ci dà l’idea dell’importanza che ha avuto nei secoli passati nell’economia montanara la pianta del castagno e quello che questo articolo vuole mettere in risalto è che si coltivava soprattutto per la castagna, elemento base dell’alimentazione montanara per una parte dell’anno, ma del castagno non si buttava via assolutamente niente perché, nella povera economia di montagna e non solo nel Pratomagno, tutto quello che proveniva dal castagno serviva per vari usi.
Questa pianta, che ha sempre svolto una funzione importante nel paesaggio collinare e montano, sembra sia stata importata dall’Asia Minore dai Romani soprattutto per le caratteristiche del suo legname, però potrebbe essere anche una pianta autoctona sempre esistita nella dorsale appenninica. Non sappiamo come in epoca romana era diffuso e coltivato, però sappiamo che del castagno ne parlano Ovidio, Virgilio, Plinio il Vecchio, addirittura Omero. Non è sbagliato pensare che alla fine del periodo medievale, verso il secolo XI l’aumento demografico della popolazione e dei commerci portò al miglioramento dei terreni agricoli per una maggiore produzione di cereali e commestibili in genere, all’ampliamento delle superfici coltivabili a spese delle paludi e dei boschi, ma fu proprio nel 1200 che nacquero i primi statuti delle varie comunità per la salvaguardia dei boschi da tagli e pascolamenti eccessivi. Molto probabilmente fu questo il momento che la coltivazione del castagno si diffuse fortemente anche per il lavoro portato avanti dalle varie abbazie che sappiamo erano proprietarie di numerose selve e molini (nei pressi della Badia di Santa Trinità esiste ancora la Selva dei frati). Con il passare dei secoli la castagna e il marrone ebbero sempre più spazio nell’ alimentazione della gente di montagna, relegando l’uso della farina di ghiande e il frutto dei faggi (faggiole) solo durante le frequenti carestie, ghiande e faggiole che ritorneranno, debitamente tostate, come surrogato del caffè durante gli anni del secondo conflitto mondiale; d’altra parte l’etimologia di faggio ha la stessa base della parola esofago.
Con il Rinascimento si capisce sempre più l’importanza del castagno nell’alimentazione umana e le varie comunità si danno delle regole fisse di gestione dei boschi, ma soprattutto disposizioni severe per quanto riguarda il periodo di raccolta, il periodo in cui potevano andare a cercare le castagne dopo la raccolta le persone non proprietarie delle selve (diritto di rumo), il periodo in cui si potevano mandare a grufolare i maiali sotto i castagneti (diritto di ruspo). Si proteggono i castagni da frutto dagli abbattimenti e quando una pianta viene abbattuta con il permesso della comunità, il proprietario deve innestare un certo numero di castagni; tutte queste disposizioni sono arrivate nelle montagne toscane fino al tempo dei Lorena ed erano presenti anche negli altri Stati della penisola.
Fu sempre in questo periodo che fu attuato lo “Jus Plantandi”, che consisteva di dare, pagando una tassa unica, il permesso a una famiglia di piantare nei terreni appartenenti alla comunità un numero limitato di piante (in genere non più di cinque) che venivano contrassegnate con un numero rosso. Le famiglie curavano tali piante, ne raccoglievano i frutti e ne diventavano proprietarie, tanto che queste piante entravano poi nel patrimonio familiare e menzionate come lasciti agli eredi nei testamenti. Dalla memoria paesana tramandata di generazione in generazione fino all’immediato secondo dopoguerra, sappiamo che la pianta più diffusa nei terreni dove veniva dato il permesso di effettuare lo Jus Plantandi era il castagno, seguito dalla pianta di noce e da quella del ciliegio. In Toscana lo Jus Plantandi ebbe fine quando il Granduca abolì gli usi civici, ma in altre zone d’Italia soprattutto nel nord esiste ancora oggi; noi del CAI Valdarno Superiore ne abbiamo visto un bellissimo esempio con relativa spiegazione durante un’escursione sulla montagna che divide l’orvietano dal ternano. La castagna e il marrone entrarono a pieno titolo fra i prodotti commercializzati dentro e fuori il Granducato e nel volume La Via Faentina, itinerario alternativo alla via Teutonica e veicolo di diffusione del castagno (Centro Studi Romei editore, 2015) ne parlano Elvio Bellini e Daniele Morelli, relatori insieme ad altri nel convegno tenutosi a Marradi nell’aprile 2015.
Alcuni decenni dopo l’avvento dei Lorena in Toscana (1737) si ebbero nella regione e in Italia delle devastanti carestie, soprattutto quelle del 1764 e del 1812 in epoca napoleonica (l’anno senza estate) che portarono a epidemie, cosicché il granduca Pietro Leopoldo allentò i vincoli che regolavano gli abbattimenti delle piante, con lo scopo di creare spazio alle coltivazioni.
Questa concessione di abbattimento per creare seminativi (frumento), fu per il popolo veramente una manna, tanto che fu chiamata “grazia del taglio”, ma portata alle estreme conseguenze e senza alcun controllo fece diventare brulle le montagne toscane. Nel frattempo in montagna era arrivata un’alternativa alimentare alla castagna: la patata. Nonostante questo continuò l’abbattimento di tanti alberi. In questo clima favorevole al disboscamento le selve non patirono danni eccessivi, a differenza dei boschi di porrine (castagno selvatico nato dal seme).
All’abbattimento degli alberi si unì poi il lavoro delle bande dei “facidanno”, povera gente e vagabondi che appartenevano al ceto sociale dei miserabili, che ripetutamente depredavano il bosco altrui senza riguardo per ottenere legna da ardere, alcuni anche per vendere. È interessante sapere che l’eco di queste squadre che devastavano i boschi, ma anche frutteti, pollai, piccionaie, allevamenti di maiali bradi è rimasto a lungo nella memoria dei paesi della Setteponti; in zona Persignano-Malva- Piantravigne se ne parlava ancora, usandoli come termine di paragone, fino agli anni ’60 del secolo scorso. Fu proprio per contrastare queste squadre che nacque nelle comunità l’idea di istituire le guardie campestri per tutelare i piccoli possidenti. Nelle fattorie prese sempre più importanza la figura del Guardia, che ancora oggi è presente. Gli stessi “facidanno” sono ricordati nel libro dell’Accademia dei Georgofili Il Castagno, fra le attenzioni dedicate ai boschi dai Georgofili nei primi loro cento anni di Luciana e Lucia Bigliazzi (Polistampa, 2002, pagina 8). Questo stato di cose durò più o meno fino a metà degli anni trenta dell’Ottocento, quando il Granduca, sollecitato da naturalisti e soprattutto dall’Accademia dei Georgofili, mise fine ai tagli indiscriminati facendo arrivare dalla Boemia l’ingegnere forestale Karl Siemon (italianizzato in Carlo Siemoni) al quale sarà dato l’incarico della conservazione del patrimonio forestale esistente, ma anche effettuare nuovi impianti di alberi.
Dopo l’unificazione italiana, nel 1877 entrò in vigore la prima legge forestale relativa al vincolo idrogeologico ed esclusivamente ad una quota altimetrica superiore a quella della coltivazione del castagno, tanto che molti boschi di castagno, inseriti nell’economia di mercato soprattutto del carbone, sparirono completamente. Questa situazione durò fino al 1910, quando fu istituita l’Azienda Speciale per il Demanio dello Stato, cui segui nel 1923 la legge forestale tutt’ora vigente. Nel frattempo il mal d’inchiostro, il cancro della corteccia e per ultimo il cinipide galligeno, hanno attaccato selve e boschi di porrine. Durante le escursioni del CAI vediamo lo stato dei castagneti e soprattutto è impossibile non vedere vecchi castagni, patriarchi del bosco, colpiti dal mal d’inchiostro in quanto nella parte circolare dell’interno vuoto del tronco si presenta nero, come fosse carbonizzato.
Nella nostra montagna del Pratomagno era preminente la coltivazione delle selve di castagne sui marroni, perché la farina dolce merita economicamente ricavarla dalle castagne e i marroni consumarli freschi. Nelle montagne del Chianti, che gli abitanti della Setteponti chiamano montagne di sotto vi sono essenzialmente marroni perché non veniva usata la farina di castagne.
Per questa ragione nelle montagne del Chianti /Valdarno non esistono seccatoi né molini per castagne secche, mentre nel Pratomagno all’interno delle selve vi sono tanti seccatoi , alcuni riportati anche nelle vecchie carte militari 1:25000 dell’IGM, soprattutto nelle selve nei dintorni di Raggiolo, che nel 1948, quando già per la castanicoltura si intravedeva la lontana crisi, riuscì a produrre 6500 quintali di castagne fresche, per un totale di 2180 quintali di castagne secche (il dato è stato ripreso da TuttoRaggiolo del giugno 2009).
Nella nostra montagna per secoli si sono innestati castagni selvatici per ricavarne “castagni buoni” per produrre ottima farina e le varietà di castagne del nostro Pratomagno sono ancora oggi soprattutto la Raggiolana (si pensa originaria di Raggiolo e forse la più coltivata), la Tigolese, la Perella del Pratomagno e la Pistolese; quest’ultima originaria del Monte Amiata non è ottima per fare la farina ma si può consumare fresca ed è per questa ragione che in alcune selve del Monte Cocollo era la più comune. Vi è inoltre la castagna Mondigione che è una specie di castagna grossa, spesso confusa con il marrone. Nella nostra zona i pochi marroni coltivati sono della varietà “marrone di Loro Ciuffenna”. La castagna e il marrone, pur essendo parenti sono due frutti abbastanza diversi, le stesse piante di marroni sono più esigenti dal punto di vista climatologico e meno produttive di quelle delle castagne. All’interno dei ricci di marroni vi sono al massimo tre frutti, in quello delle castagne anche cinque, qualche volta sei e di rado anche sette. È logico che essendo più numerose, le castagne sono più strette nel guscio e questo ne determina una forma più piccola e più incavata rispetto al marrone che spesso ha la doppia pancia perché cresciuto all’interno del riccio con più spazio a disposizione, inoltre, proprio per mancanza di spazio la superficie delle castagne è settata (rigata) rispetto a quella del marrone che è molto più liscia e nella settatura entra quella pellicola scura che avvolge il frutto e che il popolo chiama “roccia” che, a differenza del marrone, viene non completamente tolta nelle castagne, contribuendo a dare alla farina dolce quel caratteristico colore avorio. Lo stesso utilizzo delle due specie è diverso essendo le varietà di castagna meno saporite anche se buone bollite o arrosto, il marrone ha più un alto tenore di zucchero e si presta meglio ad essere usato in pasticceria. Anche dal marrone essiccato si può ricavare la farina, ma non conviene economicamente.
La raccolta delle castagne e dei marroni avviene in autunno, in un periodo massimo di tempo che va da San Michele (29 settembre) a San Martino (11 novembre). I ricci cadono a terra e una volta, questa operazione era facilitata dai battitori, persone che salendo sui rami con scale di legno li battevano con lunghe pertiche. Questa usanza si è persa ancora prima della Grande Guerra per vari motivi, quali gli incidenti gravi e il danno che veniva fatto con le pertiche alla pianta. Nella nostra zona fino a metà del secolo scorso era ancora vivo negli anziani il ricordo di questa pratica molto pericolosa, tanto che su invito dei parroci molti battitori prima del lavoro si confessavano e facevano la comunione e tutti portavano addosso una medaglietta di allumino benedetta con l’effigie della Madonna del Conforto.
Dopo la raccolta le castagne devono essere trattate per la conservazione, un’operazione delicata perché la castagna cruda, avendo una percentuale di acqua intorno al 53/55% del peso, è un frutto molto deperibile. I trattamenti usati sono: il metodo della ricciaia, l’essiccazione e la cura in acqua fredda, usata soprattutto per mantenere le castagne selvatiche per l’alimentazione dei maiali e dei conigli. In alcune zone della Toscana, come in Pratomagno, dopo l’essiccazione nel seccatoio o metato che dovrebbe portare l’umidità della castagna al 13%, tale da consentire bene la macinazione senza impastare le macine del molino, avviene l’operazione chiamata “infornatura”, che in effetti è una vera tostatura in quanto le castagne vengono trattate per diverse ore in un forno scaldato a pane (250°/300°) portando l’umidità a circa il 9/10%.
Con l’operazione dell’infornatura si ha la certezza che la castagna non darà problemi durante la macinazione, però si ha una farina di colore nocciola dovuto all’amido tostato e con un sapore tendente all’amarognolo dovuto alla presenza dei tannini. Le castagne secche, sia quelle non infornate che quelle tostate, venivano macinate fino a fine maggio e la farina dolce mantenuta con i sistemi tradizionali in casse di legno, debitamente pigiata e protetta da uno strato di cenere, in modo che non venisse a contatto con l’ossigeno dell’aria.
Della pianta di castagno tutto è utile
Nelle nostre escursioni abbiamo visto all’inizio estate che sotto ai castagneti spesso vi sono lunghe file di arnie con le api che sciamano in continuazione sui rami della pianta. È questo il periodo di fioritura del castagno o marrone e le arnie, da sempre vengono collocate sotto la pianta per la produzione del miele di castagno, che è un miele molto richiesto perché pregiato e con determinate caratteristiche. Le api, nel linguaggio popolare ancora chiamate “pecchie”, dizione arcaica ma corretta che deriva dalla parola latina apicula, vanno matte per il nettare dei fiori di castagno che le fa letteralmente impazzire, diventando molto aggressive e pericolose; occorre perciò stare un po’distanti dagli alberi dove ronzano le api.
La ricciaia – Uno dei metodi più seguiti dai montanari per conservare le castagne era mantenerle accumulate in una ricciaia coperta. Questo metodo, che decenni fa era comunissimo fra chi aveva piccole quantità di castagne, è andato con il tempo quasi totalmente in disuso. Per fare la ricciaia in genere si faceva una buca regolare di una certa profondità in un terreno riparato in prossimità dei castagni, nel fondo si metteva terra fine, poi sopra venivano ammucchiati i ricci chiusi o semichiusi, tutto ricoperto con foglie di castagno, ricci vuoti, erba e terra. Il poco caldo sprigionato dalla massa faceva innescare un processo di auto fermentazione che liberava sostanze protettive per la castagna. In genere, secondo le condizioni meteo, dopo tre o più settimane la ricciaia si disfaceva portando via le castagne, che resistevano bene per alcuni mesi. È interessante sapere che dopo aver disfatto la ricciaia e recuperato le castagne, venivano bruciati i ricci vuoti per ricavarne cenere. La cenere è sempre stata preziosa in montagna nei secoli passati, sappiamo che gli abitanti del Pratomagno bruciavano arbusti, legna media e sottobosco per avere concime per le maggiatiche, così chiamata da noi la pratica del maggese, oltre a venderla ai contadini della Setteponti. La cenere è un buon concime, anche se non completo in quanto solo composto da Potassio e Fosforo (manca la componente azotata, che si perde volatizzando durante la combustione). La cenere prodotta dalla combustione dei ricci di castagne è ottima, con un’alta percentuale di elementi fertilizzanti, usata soprattutto negli orti e data in maniera abbondante alla base delle piantine, rendendo fortemente basico il terreno preserva loro le radici dall’azione dei roditori come le talpe cieche.
Essiccazione – Sull’essiccazione delle castagne si rimanda al post dell’ottobre 2011 presente in Terre Alte, nella sezione Valdarno/Castelfranco- Piandiscò. L’essiccazione tramite il calore trascinato dal fumo di combustione avviene nel seccatoio, che in molte zone della Toscana è chiamato “metato”. Questo termine, non usato nella nostra montagna, deriva dalla parola latina meta che sta per mucchio, infatti all’interno del piccolo edificio le castagne vengono ammucchiate nei graticci sospesi a metà altezza nel piccolo edificio.
Elemento primario dell’operazione di affumicamento e successiva essicazione è una combustione al piano terra, sotto ai graticci colmi di castagne, combustione che più che provocare fiamma viva, deve generare fumo caldo il cui calore, oltrepassato lo strato di castagne, fa sudare le medesime togliendo umidità. La legna per fare fuoco e fumo è proprio quella di castagno, sia perché tanti seccatoi erano costruiti all’interno delle selve dove la legna di questa pianta è la più abbondante, ma soprattutto per un particolare “tecnico”, in quanto la legna di castagno non brucia bene e produce molto fumo, perché il pezzo di castagno che alimenta il fuoco in un focolare non brucia con la stessa facilità della quercia o della acacia, in quanto , come dicono i montanari, il castagno brucia male facendo “il muso nero” fra scoppiettii e molto fumo caldo. Inoltre il fuoco all’interno del seccatoio è condizionato dall’essere soffocato parzialmente dalla buccia tritata delle castagne secche sbucciate in lavorazioni precedenti; si cerca di bruciare in difetto di ossigeno per non provocare la fiamma. Interessante è sapere che questa buccia tritata delle castagne secche veniva chiamata nel linguaggio montanaro “fuffa”, dizione arcaica perfetta che significa paccottiglia, oggetto di poco valore, nell’Appennino anche con il termine “zanza” che sicuramente proviene da qualche voce dialettale locale.
Foglie – Nella nostra montagna una certa quantità di grano è sempre stata seminata, soprattutto la varietà “grano marzuolo” che si semina a fine marzo quando la neve è scomparsa, di conseguenza la paglia, essendo in poca quantità, è sempre stata materiale ricercato, anche quella di segale, che ha utilizzi diversi da quella di grano. In sostituzione della paglia di grano erano usate le foglie di castagno che, nell’autunno quando cadevano, venivano portate via con le tregge o accumulate in capanne di legno chiamati casotti, costruiti negli stessi castagneti per immagazzinare le foglie utilizzate nel tempo.
Le foglie di castagno servivano per fare la lettiera agli animali, sia bovini che ovini e asini, per questo poi si trasformavano in concime; una parte delle foglie secche veniva utilizzata per dare da mangiare alle capre. Inoltre era uso comune, se avanzavano, scaricare le foglie direttamente nella concimaia perché in breve tempo, fermentando con il letame esistente, avrebbero aumentato la massa dello stallatico. Un uso costante fino al secondo dopoguerra che è rimasto nella memoria della gente, era quello di usare le foglie di castagno come riempimento del saccone del letto in sostituzione del materasso. Nel fondovalle per riempire il saccone venivano usate le foglie di granturco, ma essendo in montagna il mais un prodotto raro, questo veniva sostituito con le foglie secche di castagno, più abbondanti. Questo pagliericcio, chiamato “saccone” e in minor misura “paglione”, nel nord conosciuto come “pajon” (famosa la canzone degli alpini “Sul pajon della caserma, requiem aeterna e così sia”) che è una parola spagnola indicante “stoppia”. Personalmente ho dormito da ragazzo nel saccone del letto di mia nonna, che abitava appena sotto Oliveto, a Loro Ciuffenna e devo dire che ho fatto delle belle dormite. Il problema era il rumore stridente che avveniva quando, chi riposava, cambiava posizione.
Legno – Da sempre il legno di castagno è entrato nella cultura della gente di montagna perché utilizzato in mille modi, dai mobili di casa, agli attrezzi di lavoro, ideale per travi e travicelli e per sostegno alle viti. Con il legno del castagno domestico (innestato) vengono ancora oggi costruiti mobili in massello, tipiche le tavole fratine e le doghe per vasi vinari e infissi; con il castagno selvatico (porrine) si fanno anche mobili ma soprattutto travi e travetti. Fra i due tipi di legno c’è una diversità nel colore, essendo il legno di castagno domestico più giallo e quello della porrina più bianco. Inoltre la presenza maggiore di tannino nel castagno domestico perché pianta più vecchia del ceduo, rende quel legno più resistente agli agenti atmosferici di quello di porrina e quindi più adatto per la costruzione di infissi e porte. Gran parte dei mobili della case di montagna erano fatti con legno di castagno, la rimanenza con legno di qualche cipresso, non tagliato per l’occorrenza ma buttato giù dal vento o dai fulmini; nell’immaginario collettivo della nostra montagna, tagliare un cipresso sano in vegetazione si diceva che “portava male” e questa norma era attentamente osservata. Anche nelle piccole chiesette delle frazioni montane, l’arredo sacro costituito da panche, confessionali e cornici sono ancora tutte di castagno domestico, come pure le capriate, le travi, i travetti, le finestre e le robuste porte d’ingresso. Nel secondo dopoguerra, nonostante che in Pratomagno (casentinese e valdarnese) la massima produzione di castagne secche sia avvenuta nel 1951, iniziò la crisi con l’abbandono della montagna. Proprio negli anni del dopoguerra prese corpo la trasformazione delle selve di castagno in bosco ceduo, sia per vendere nelle falegnamerie i tronchi di castagni domestici che per il successivo sfruttamento delle ceppaie a paline per il campo agricolo e nelle travi e travetti che la ricostruzione dell’Italia post bellica richiedeva. Questa trasformazione fu lenta all’inizio ma poi accelerata dalla possibilità di tagliare i monumentali castagni non più con le asce o con il segone, che era una fatica immane e richiedeva molto personale, ma con l’uso delle motoseghe e portare il legname spaccato a valle non più a dorso di mulo ma con i trattori. Chi scrive ricorda benissimo negli anni ’70 enormi cataste di tronchi di castagno domestico per uso di falegnameria, all’imposto lungo la stradella fra Bagni di Cetica e Cetica. In Pratomagno abbiamo il legno del castagno mondigione (mondistollo) che è una varietà fra le più pregiate per legname da mobili.
In contemporanea all’ utilizzo del legno in falegnameria, in Pratomagno c’è stato per una quarantina d’anni (inizio anni venti fino a metà anni cinquanta del secolo scorso) l’utilizzo del legname di castagno domestico per ricavarne il tannino; la fabbrica di tannino era a Bibbiena dove su tre turni lavoravano più di ottanta persone. Questo opificio è rimasto attivo fino al 1956 e ancora oggi dà il nome al quartiere e a una strada vicino alla stazione ferroviaria, rimane qualche struttura che oggi è stata convertita al commercio; soprattutto ben visibile la vecchia ciminiera che era alta quarantasette metri e qualche anno fa venne abbassata di cinque metri per ragioni di sicurezza.
L’acido tannico è una sostanza organica con una formula chimica complessa che si trova nella corteccia e nel legno di diverse piante (quercia, acacia) ma soprattutto nel legno dei vecchi castagni; è un polifenolo e non è pericoloso per l’ambiente. Ha diversi usi, ma soprattutto viene impiegato nella concia delle pelli. I castagni venivano abbattuti con l’ascia, il tronco era squartato con dei cunei e i pezzi caricati sui muli portati all’imposto, da dove partivano sopra ai calessi e poi camion per la fabbrica. Per questo motivo tanti grandi castagni sono stati abbattuti sia nel Pratomagno casentinese, nell’Appennino e in Val Tiberina. La fabbrica del tannino cessò l’attività nel 1956 per vari motivi fra cui la rarefazione della materia prima e il crollo del prezzo del prodotto perché ricavato anche per sintesi chimica. In Italia, soprattutto nel cuneese dove vi sono enormi boschi di castagno, operano ancora grandi fabbriche chimiche che producono tannino da quella pianta ed hanno come sottoprodotto la segatura di castagno esausta perché distillata, utilizzata per fare ottimi pellet per riscaldamento.
Polloni da piante selvatiche – La pianta selvatica del castagno (porrina) ha la tendenza a emettere dalle radici sottoterra e sul tronco del portainnesto molti polloni (ributti o succhioni) che ogni anno, per la salute della pianta, dovevano e ancora oggi nelle selve curate devono essere tagliati. Per questa operazione di taglio, un tempo, come riportato su un precedente post di Terre Alte, l’utensile più usato perché più comodo era il “maniolo”, una specie di accetta-mannaia a manico corto. I polloni tagliati, in base al diametro e alla lunghezza, venivano impiegati come legna da ardere o fatte delle fascine, che poi seccate erano usate per fare della carbonella, per l’accensione del focolare, scaldare il forno per cuocere il pane o come frasche utilizzate quale supporto nell’orto per piselli e fagioli arrampicanti, per facilitarne lo sviluppo verticale e orizzontale.

Vi è ancora oggi un altro uso dei ributti selvatici di castagno fra gli artigiani produttori di ceste, cistelle e contenitori simili, che è quello di far diventare il ributto, debitamente trattato, da rigido a malleabile, pieghevole facilmente lavorabile; da sempre nella nostra montagna e nella Setteponti questo ributto di castagno trattato viene chiama “mattero”. La parola mattero, da cui poi è derivato il vocabolo “mattarello” utensile ben conosciuto, proviene dal termine latino matteris indicante un bastone, è una parola arcaica menzionata anche nel Novellino del XIII secolo e non più riportata nei moderni vocabolari della lingua italiana, riportata però nel Nuovo Vocabolario Del Vernacolo Fiorentino di Alessandro Bencistà (2009, Firenze libri). Il trattamento consiste nel mettere poco dopo il taglio dalla pianta il mattero in un forno scaldato per un paio di ore a 70/80 °C (meglio se a bagnomaria, in questo caso il forno va scaldato a temperatura più alta e tenuto più a lungo). Quando il mattero viene tolto dal forno, è malleabile e pieghevole e può assumere qualsiasi forma. Inoltre con una lamina può essere tagliato bene in lunghezza in strisce sottili che servono per fare canestri e ceste: una forma di artigianato che ancora esiste. Questo lavoro, oltre che con il legno di castagno può essere fatto con il ributti di orniello, una pianta molto comune che nella Setteponti e nel Pratomagno viene chiamata nocischio.
Nella Setteponti i matteri di castagno debitamente trattati in forno, ebbero un momento di successo dopo il passaggio del fronte bellico nell’estate 1944, momento di risonanza che durò fino al 1946 in quanto sostituirono copertoni e camere d’aria (a quel tempo introvabili) alle ruote delle biciclette. I matteri venivano incastrati in maniera perfetta al perimetro circolare della ruota della bicicletta al posto dei copertoni, resi stabili con vari accorgimenti venivano poi ricoperti con stracci strettamente legati che avevano la funzione di ammortizzare gli scossoni, soprattutto nelle strade di allora che erano quasi tutte bianche. Nella zona di Persignano/ Malva si ricordano ancora le imprese ciclistico-commerciali di due persone che, alimentando il mercato nero del sale da cucina, facevano un viaggio al mese a Volterra con la bicicletta da uomo con matteri e stracci alle ruote e faro a carburo portando a casa cinquanta kg di sale ciascuno a viaggio che, andata e ritorno, durava una settimana.
Carbone di castagno – Da sempre nell’economia del Pratomagno il carbone di castagno ha avuto un ruolo importante. Il carbone vegetale è stato il motore delle officine fino a metà dello scorso secolo, pur avendo avuto come competitore dalla fine del secolo XIX la lignite e il carbon coke che venivano usati nell’industria. I fabbri, gli artigiani del ferro in genere preferivano usare il carbone vegetale prodotto in montagna dai carbonai perché bruciava meglio e con pochi residui di fumo; in effetti nel carbone vegetale è assente la percentuale di zolfo e altre impurità organiche che sono presenti nella lignite e che in piccola misura rimangono nel cocke. Durante le nostre escursioni nei boschi troviamo sempre un gran numero di piazzole dove veniva allestita la carbonaia, elemento questo che ci dà l’idea della grande importanza della produzione di carbone vegetale (castagno, quercia, faggio, orniello, carpino) nell’economia montanara. Nello specifico, della produzione di carbone di castagno nel Pratomagno ne parla il prof. Andrea Barlucchi negli Annali Aretini (vol. XIX) in un paragrafo intitolato “Osservazioni sulla produzione del carbone di castagno in Casentino (secoli XIV-XV)”, relativo all’uso di questo carbone nelle officine di produzioni di armi. Queste officine erano state costruite dai Conti Guidi nei boschi di castagni intorno a Raggiolo e sfruttavano la forza idraulica dei torrenti Teggina e Barbozzaia.
Il carbone di castagno era quello preferito dai fabbri e nell’uso domestico rispetto agli altri carboni, in quanto a parità circa di calore specifico e durata, fa pochissimo fumo e questo particolare, nelle buie botteghe dei fabbri e per chi stava una vita ai fornelli delle cucine prima dell’avvento del gas in bombole, era un dettaglio importantissimo.
In sintesi, ai tempi della Civiltà del castagno, anche nella nostra montagna del Pratomagno, come in tutte le altre montagne del mondo dove il castagno nasce e cresce bene, di questa pianta non si buttava via niente. Si raccoglievano le bucce umide e masticate delle ballotte da noi chiamate succiole e le bucce secche delle caldarroste che noi chiamiamo bruciate che alla fine tutte erano gettate nel focolare per alimentare il fuoco domestico, il fuoco e la vita della famiglia montanara, che anche in virtù della pianta di castagno sono rimasti accesi fino a pochi decenni fa.
La foto a tutta pagina è stata fatta durante un’escursione del martedì presso l’abbazia di Santa Trinità in Alpe nella selva dei frati, le altre sopra la Setteponti verso il monte Cocollo