I probabili luoghi dove venivano esercitati gli Usi Civici sul Monte Cocollo.

Loro Ciuffenna Terre Alte

 In una economia di sussistenza  come quelle dei secoli passati (medievo ed età moderma), il diritto di legnatico e di pascolo  è sempre stata un’esigenza primaria molto sentita per  la popolazione povera, anche quella  che abitava  i paesi della  Sette Ponti come  Piantravigne, Persignano, Montemarciano.  Probabilmente esistevano anche  sulla montagna del Cocollo dei terreni di proprietà  demaniale, dove  veniva consentito  alla popolazione di raccogliere legna secca da ardere, arbusti per scaldare il forno per cuocere il pane, raccogliere ghiande  e far pascolare animali come pecore o capre senza provocare danni . Gli usi civici erano presenti anche in epoca romana e si rafforzarono notevolmente durante il Medioevo, poi come servitù collettive trovarono un assestamento giuridico ed economico nell’Italia comunale che durò per molti secoli.  In Toscana furono i Lorena con Pietro Leopoldo I  che con una legge del 1784 pose fine, non senza qualche problema e fra il disappunto popolare, a questo antichissimo sistema economico di sostentamento per le famiglie povere. Nel resto d’Italia seguitò invece  per molto tempo e soprattutto nello Stato Pontificio, dove questa usanza era molto radicata, proseguì anche dopo l’unificazione nazionale e in effetti  gli usi civici, o beni comuni nel Lazio e in Umbria , continuano ancora oggi  sotto il nome di “Università Agraria” che  è  una  forma associativa la quale  rappresenta un ricordo di un’ epoca passata, in cui aveva funzioni ben più importanti di quella odierna. Alcuni anni fa, in una nostra bellissima  escursione  (accompagnatore Maurizio Barlacchi e….) nella montagna ternana (monte Croce di Serra) davanti ad Orvieto, siamo partiti proprio dalla  sede dell’ Università Agraria di Montecchio, che con l’Università degli studi non ha proprio niente in comune e attraversammo sopra il borgo-castello  di Melezzole una bellissima marroneta, forse la più bella che io ho visto, le cui piante numerate a gruppi di cinque, vengono ancora oggi    date in manutenzione e sfruttamento    agli abitanti della zona, in maniera gratuita o forse  pagando annualmente una piccola somma in denaro. Pietro Leopoldo motivò  la propria legge di abolizione degli  usi civici  con la giustificazione che in questa maniera sarebbero ritornati sfruttati e coltivati bene migliaia e migliaia di ettari di terreni e di bosco in pianura e in montagna lasciati  abbastanza incolti, ma in effetti, alla base di questa legge ci poteva essere la stessa ragione che aveva portato il Granduca lorenese all’esproprio e alla vendita a privati dei beni ecclesiastici, ricavando così un utile finanziario da  terreni che all’erario non fruttavano niente.  Quella degli usi civici e dei beni comuni è una questione molto complessa che ha interessato e interessa ancora  molti studiosi e giuristi che hanno scritto sull’argomento  fiumi d’inchiostro e   che non si risolve in poche righe.

Per quanto riguarda il Monte Cocollo, penso che vi  potrebbe essere  nell’ archivio comunale  di Loro Ciuffenna  qualche   documento in merito. Di certo è da pensare che l’uso  del  pascolo, ma soprattutto del legnatico in terreni dove prima era consentito, non  sia cessato del tutto appena fatta la legge del 1784, ma sia continuato in parte, sicuramente  in forma ridotta ancora per molto e abbia avuto un eco di risonanza nel tempo

Mi preme fare una considerazione. Fino a metà degli anni ’50 del secolo scorso, in paesi come Malva- Persignano  gran parte delle  famiglie facevano  il pane in casa con  cadenza settimanale . Alla base c’era un motivo economico, in quanto fare il pane in casa  significava un risparmio in termini di costi familiari, fra l’altro era risaputo che da un quintale di farina  veniva ricavato 130 kg di pane cotto. Per alcune  famiglie però il problema era di avere la legna fine per scaldare il forno, in quanto i forni (a Persignano c’era il forno  condominiale paesano)  erano molto grandi perchè capienti per 7/8 pani da due Kg  e necessitavano, per arrivare alla temperatura di cottura, di una bella quantità di legna fine, o arbusti. I contadini scaldavano il forno con i sarmenti delle viti e con le potature degli olivi che a quel tempo venivano rigorosamente conservate a questo fine, a chi non bastavano i sarmenti e le potature  si approvvigionava nei modi più disparati di materiale per bruciare, come   tagliare  e  seccare  i   canneti che si erano formati in luoghi umidi, soprattutto nel greppi di divisione fra un appezzamento di terra e l’altro. Un  combustibile particolare per scaldare il forno da pane, che da l’idea che allora  tutto era utile e non veniva buttato via niente, era l’uso dei rovi, proprio quei rovi  che nell’estate  hanno come frutto le more; i rovi venivano bruciati non secchi ma verdi in quanto facevano  volume, mantenendo sempre però  un alto potere calorifico pur provocando  alte colonne di fumo .

Ma il materiale ideale per scaldare il forno  era e rimane ancora oggi l’Erica Scoparia conosciuta comunemente come “scopa”, l’arbusto  che  oggi viene usato  per fare le  ramazze  per pulire strade e piazzali. L’Erica Scoparia ha da sempre attecchito bene sulla parte alta del  versante del Cocollo che guarda la Setteponti e in misura minore appena dietro il monte nel versante di Modine. La motivazione è che l’erica scoparia non sopporta temperature rigide e il versante del Cocollo dove attecchisce bene, è climatizzato  dalle correnti alte  dei  venti piuttosto caldi  provenienti  dal  mare Tirreno, che seguendo il corso dell’Arno arrivano  al Cocollo superando lo sbarramento presso Firenze  rappresentato  dalle colline del San Donato, sbarramento collinare  che separa il Valdarno dal fiorentino.

 Quello dell’ approvvigionamento delle scope (erica)  per scaldare il forno era un’ incombenza  che spettava alle donne, quindi periodicamente  le famiglie dovevano fare rifornimento in montagna  di scope (erica) che mescolavano insieme ad altro combustibile più povero come le  ginestre, tagliate vicino al paese soprattutto sui ciglioni delle  Balze che da sempre erano considerate “terra di nessuno”

Il rifornimento di scope (erica) sul Cocollo però portava qualche inconveniente che non era cosa da poco, prima di tutto per un fatto logistico e di trasporto che si trasformava in una gran faticaccia, poi perché le scope venivano tagliate in proprietà private,  in effetti  erano “rubate”.  A tagliare le scope, o come si diceva nel linguaggio paesano “andare al bosco”  le donne non andavano  mai da sole, ma in gruppo minimo  di tre e questo  per potersi  dare reciprocamente  aiuto nell’eventualità di un incidente, poi per fronteggiare eventuali rimostranze del proprietario del fondo. Questa seconda eventualità era abbastanza remota  data la morfologia complicata del monte, la caratteristica dell’arbusto che se non viene tagliato spesso con il passare del tempo si perde, poi  perchè le donne sapevano scegliere perfettamente il pezzo idoneo per arrecare poco danno al proprietario, che il più delle volte era consenziente. Nell’immediato dopoguerra il versante della Setteponti del monte Cocollo era abitato fino poco sotto la vetta , vi erano poi case sparse isolate ma tutte abitate,insediamenti più grandi abitati erano Odina, Vignale, Querceto e Oliveto. Il gruppo di donne partiva da Malva-Persignano  verso le sei la mattina, d’estate  molto  prima, portavano  un pennato per recidere gli arbusti, un sacco di juta piegato o arrotolato che chiamavano “cercine”, un grembiule  con legaccioli  fatto da un sacco grande aperto  di juta  e  si portavano dietro   minimo tre funi di cui quella che era  più lunga delle altre doveva avere un diametro maggiore. Affrontando  la ripida vecchia strada di montagna che poi diventava e diventa sentiero, dopo circa due ore di cammino  e con una fermata per fare colazione erano già sopra Vignale  e scelto il terreno per il taglio, si dividevano mantenendosi però sempre a vista o a portata di voce.   Nel fare il fastello di scope (erica) veniva messa la massima cura in quanto  questo doveva essere stabile e non sciogliersi o sfilacciarsi durante il trasporto e normalmente aveva un peso di 50/60 kg (ma anche più) , peso che le donne dovevano portare  “a spalla” fino al paese.  Sulla  terra, in piano  venivano distese in tre ordini  le funi a una distanza  un po’meno di un metro l’una dall’ altra ,  quella grossa lunga veniva messa  doppia nel mezzo,  però non centrale ma più vicina   a quella che poi avrebbe legato la parte alta del fastello.  Via via che l’erica veniva tagliata veniva distesa con maestria  sopra ai tre ordini di funi, quando il fastello aveva preso la consistenza e il peso voluto,  era  avvolto e legato strettamente  dalle funi , come diametro poteva essere anche appena  maggiore di un metro e come altezza intorno a due metri,  ma non più. Aiutandosi vicendevolmente, i fastelli veniva messi in posizione verticale  in genere sopra una ripiano o una piccola elevazione . Tutta questa operazione durava circa alcune ore. La donna  si  metteva sulle spalle, legato al collo, il grembiule come se fosse un mantello per riparare il dorso dagli eventuali  semi di erica e altro sporco, calcava  sul capo  il cercine, si metteva davanti ma di spalle al fastello tenendosi  leggermente piegata  sulle ginocchia  e  mettendo la testa  a contrasto con la seconda legatura, quella più grossa e doppia, facendo leva  sulle gambe, si raddrizzava   alzando  da terra il fastello che , a questo punto, si staccava dal terreno  gravando  interamente il proprio peso sulla testa e sul dorso della donna. Procedendo in questa maniera, lentamente e in fila indiana, mantenendo in equilibrio con le mani il fastello   percorrevano per ore  i malagevoli sentieri di bosco anche in forte pendenza, ogni tanto sostando in punti appositi da dove era poi facile ripartire  con il carico, si arrivava a casa nelle ore di primo pomeriggio.  Il fastello veniva subito disfatto e l’erica sparsa a tappeto per terra  perché perdesse l’umidità, la donna “sudata fradicia e fortemente stanca “ andava a lavarsi (senza doccia) e a cambiarsi l’abito, poi mangiava (desinava ). L’erica trasportata, sommata poi a qualche altro arbusto reperito in loco durante la settimana e messo da parte, era sufficiente per scaldare due volte  il forno  per cuocere il pane.  Per anni, due volte il mese, tante donne della Setteponti  affrontavano questo “calvario” che ebbe fine oltre la  metà degli anni ’50 del secolo scorso, quando arrivò la televisione e carosello.  Nei paesi come  Persignano- Malva  vigevano delle regole ataviche per fare il pane, che mai veniva fatto di venerdì, ma gli altri giorni soprattutto il sabato, perche insieme al pane  tutti mettevano a cuocere o arrostire   pezzi  di carne per il giorno successivo che era la domenica, qualche volta insieme al pane veniva messo qualche dolce. Se il pane veniva fatto  durante un giorno della settimana che non era Venerdì, era immancabile   una pentola di fagioli a lessare . In genere, nel forno condominiale di Persignano, che veniva gestito dal bottegaio del paese al quale si pagava 10 lire, il primo che scaldava il forno doveva essere componente di  una famiglia che aveva a disposizione molte legne con poca fatica, infatti la mattina il forno era freddo e per portarlo alla temperatura idonea  per cuocere il pane occorreva più legna,  poi il forno passava al secondo  fruitore che, ricevendo il forno abbastanza caldo, consumava molte meno legne, così anche per quelli successivi. Non essendoci termometri, il segnale che dava la sicurezza che il forno aveva raggiunto la temperatura necessaria per infornare e cuocere il pane, era dato dall’imbiancamento dovuto al calore dei mattoni neri della  bocca  del forno, infatti si diceva  che il forno “aveva fatto le bocchette”.  Un odore bellissimo di pane cotto si spandeva allora  per il paese e per il vicinato.  La cottura del pane durava circa 45 minuti e tramite un foro aperto/chiuso, fatto in alto  sulla parete della  “turatoia” che era la  piastra sottile di ferro con manico che chiudeva la bocca del forno, si controllava le fasi della cottura. A cottura avvenuta il pane veniva tolto, portato nella madia  e durava tutta la settimana.

Poiché da ragazzino sono sempre stato attento a quello che veniva raccontato dagli anziani, anche da mia nonno e mia nonna , classe 1879 l’uno, classe 1890 la nonna, più volte ho sentito dire che in certe zone del Cocollo, anticamente si  aveva il diritto di raccogliere   legna, queste zone erano chiamate “La Bandita”  e la “Galuppa” . Sicuramente era una notizia che si tramandava da generazione in generazione arrivando fino  alle genti   nate poco prima della fine del secolo XIX. La Galuppa  ancora oggi è una zona facilmente identificabile   nel versante del Cocollo che guarda Modine,  meno identificabile oggi  è il territorio chiamato “ Bandita” , che le nostre nonne conoscevano bene, un termine  di cui oggi se  ne è persa l’ubicazione e  non risulta più nel monte Cocollo, ma che io da piccolo ho sentito nominare tante volte  insieme al nome   di una fonte storica chiamata “Fonte dei Macchioni “che ancora oggi esiste e  da cui ha origine uno dei rami  sorgentiferi del Borro di Malva .  Sappiamo dalle nostre nonne che questa fonte era una tappa di riposo obbligata  durante il ritorno  prima di affrontare la ripida e lunga discesa che le avrebbe portate a Malva, intorno alla fonte era stato fatto un terrapieno dove si poteva poggiare il fastello di erica e ripartire bene senza problemi.

 In base alla posizione di questa fonte a quota 750 m circa ,  posso pensare con una certa sicurezza che il territorio di quel monte , chiamato “La Bandita” dove  la gente avrebbe esercitato  il diritto di legnatico e di pascolo, potrebbe   identificarsi  nel territorio boscoso   che da Vignale sale alla vetta del monte, un vasto triangolo fra il podere i Pianacci m.648 , la Casa Bassi m.645   e come vertice  le Casacce  a quota 830 m. Il territorio è attraversato dalla vecchia mulattiera che da Malva saliva al castello del Cocollo e che ora è sentiero CAI35.

Una ricerca un po’ “sui generis”, che si basa solo  su alcuni ricordi giovanili senza nessun riscontro d’archivio, ma che, perlomeno,  ha messo in risalto un aspetto conosciuto  della vita quotidiana di un passato non molto lontano.  

Testo e foto di Vannini Vannetto

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