Gli anni neri dell’agricoltura nelle colline della Setteponti. (Quando si beveva l’acquerello o mezzovino)

L'articolo Loro Ciuffenna Terre Alte Valdarno

Nel sistema collinare che incombeva sopra alla provinciale dei  Sette Ponti, la forma di conduzione prevalente dell’agricoltura era stata sin dall’età medievale quella mezzadrile con i propri meccanismi interni e le proprie specificità.  Il carattere  statico del sistema mezzadrile era caratterizzato da una scarsa propensione dei proprietari terrieri agli investimenti e miglioramenti fondiari, da bassi livelli di capitale investito nel podere che  aveva come risoluzione una bassa  produttività. Le fattorie  ubicate nei paesi della provinciale  possedevano, da antica data,  grosse proprietà fondiare sia a monte della  Sette Ponti  che a quote basse sotto la Setteponti.  Il sistema di fattoria, era un’organizzazione tesa a ricavare dai terreni  il massimo rendimento con la minima spesa necessaria ed era un’organizzazione che si era data una struttura tale da essere in grado con frantoi, molini, torchi, tabaccaie, di lavorare il prodotto ricavato dalla coltivazione  dei terreni e contemporaneamente esautorare il mezzadro da qualsiasi decisione per il tipo di coltivazioni e la rotazione delle coltivazioni da adottare.

Il fattore teneva singolarmente per ogni famiglia mezzadrile un’amministrazione, un conto economico con le voci di spese sostenute   e le entrate  avute  sia  dal mezzadro che  dalla fattoria  nella conduzione annuale del podere. Nella famiglia mezzadrile, l’unico referente riconosciuto  con il quale il fattore parlava di amministrazione e di interessi finanziari era il “capoccia”,  un  membro  della famiglia che sapeva  “leggere, scrivere e far di conto”,  eletto da gli stessi  a questo incarico. Elemento indispensabile  per tenere a termine di legge l’amministrazione di un podere  a conduzione mezzadrile  era il “Libretto colonico”, del  libretto  che veniva comprato nelle cartolibrerie , ve ne erano due copie, una per il fattore  e l’altro per il capoccia  e vi veniva segnato dal concedente  il contratto di mezzadria  tutte le voci a credito e a debito relative a quel podere, per ogni voce c’era la data e la motivazione.  Nel libretto  colonico vi erano  somme piccole  ma anche molto  sostanziose derivanti dalla vendita di vitelli, maiali, pecore e capre in quanto  la quota spettante al mezzadro non veniva data subito all’atto della vendita, ma veniva presa dall’amministrazione, segnata nel libretto economico e contabilizzata a fine anno ai saldi, in effetti era per la famiglia mezzadrile  una somma immobilizzata. Nel contratto mezzadrile  inoltre veniva  fatto  riferimento alle “prestazioni gratuite” che erano forme di lavoro gravoso e umiliante che il colono doveva garantire ogni anno alla proprietà, e alla quantità di “regalie” le quali consistevano  in un certo  numero di paia di capponi, galline, piccioni,agnelli  che il mezzadro doveva portare, soprattutto in determinati periodi dell’anno alla fattoria.  Il numero mancante delle prestazioni gratuite, a fine anno veniva monetizzato e la quota risultante  registrata nel libretto colonico fra i crediti che la fattoria vantava nei confronti del mezzadro, cosi anche per le regalie, stimando il valore degli animali non regalati. Questo  stato di cose che la parte  padronale cercherà di mantenere intatto  anche nell’immediato  secondo dopo guerra, creerà  contrasti e agitazioni sindacali promosse dai mezzadri che volevano abolire le prestazioni gratuite e le regalie  ma soprattutto riscuotere all’atto della vendita del bestiame la parte spettante. Vi furono grosse dispute, scioperi , vennero abolite le regalie e le prestazioni gratuite ma il problema  di riscuotere subito la quota spettante   ricavata dalla vendita del bestiame non venne mai risolto  fra le parti in contrasto,  arrivò poi l’abbandono dei poderi da parte dei  coloni  e il problema cessò.

In prossimità della fine dell’anno, il fattore con il capoccia facevano il conguaglio finanziario riguardante il podere  e spesse volte (quasi sempre) il conto economico era in passivo per il contadino. Nei poderi  sopra alla Setteponti, dove veniva prodotto un ottimo vino tanto da essere menzionato (vino di Gropina) dal Redi  nel suo “Bacco in Toscana”,era costume  per limitare o azzerare  il debito  che il contadino aveva nei confronti della proprietà, di lasciare alla fattoria tutto il vino prodotto nella stagione e la famiglia mezzadrile bere per tutto l’anno l’acquerello o mezzovino  ( va da se poi che i contadini furbi qualche botte di vino buono durante la vendemmia  l’avevano  nascosta e messa da parte).

Cosa era l’acquerello o mezzovino  di cui oggi solo le persone anziane serbano un ricordo ? Era una specie di  vino leggerissimo, in chimica si sarebbe chiamato  “soluzione acquosa  leggermente alcolica”  che veniva  fatta dopo che il colono aveva svinato. In effetti, nei tini, tolto tutto il vino rimanevano le vinacce, ed era proprio  su queste vinacce che  si mescolava  una certa quantità di acqua la quale lavandole, solubilizzava l’alcol rimanente e i residui  zuccheri. Per fare le cose bene, ricordo che nelle botti delle vinacce, oltre a aggiungere l’acqua, si aggiungeva anche qualche cistella di uva  lasciata proprio per la bisogna, che fungeva   da catalizzatore per riprendere  una  breve bollitura di tutta la massa acquosa  leggermente alcolica, bollitura dovuta alla quantità di uva aggiunte e al residuo zuccherino che le vinacce avevano mantenuto. Dopo una settimana o meno si metteva nelle damigiane l’acquerello  e si toglieva dal tino la vinaccia  la quale, essendo esausta non era buona per fare la grappa.  L’acquerello, che  era fatto in tutt ‘Italia,  quindi una pratica molto diffusa nelle campagne (in Piemonte nelle Langhe era chiamato “Vinot”)  ha avuto una grande importanza durante la mezzadria perché molto bevuto dai contadini e non soggetto a  tutte quelle leggi chimico-fisiche-biologiche che rendevano  ai coloni la conservazione del vino una cosa molto difficile (i contadini del piano che avevano  un gran numero di viti loppiate, cercavano a giugno di aver venduto tutto il vino, in quanto con l’arrivo dell’estate il vino “girava”). In effetti, ‘acquerello, non essendo un vino, ma solo una soluzione di acqua leggermente alcolica, si manteneva bene, in estate poi tutti i contadini della Setteponti avevano una “grotta” scavata nel sansino di una balza, grotta che fungeva da frigorifero d’estate e calda d’inverno (una grotta ben fatta e isolata termicamente,  con una piccola apertura d’ingresso   e senza finestre,  manteneva la solita temperatura sia d’estate che d’inverno). L’acquerello, appena chiaro si beveva e continuava ad esserebevuto anche durante l’estate. Per esperienza vi posso dire che  quasi sempre veniva un prodotto che era veramente buono e gustoso, tendente al frizzante, ne potevamo bere tanto perché non c’era pericolo di “sbornia”. Una legge che nessuno dei contadini sapeva, era che per  la quantità di acquerello  che un colono  aveva in cantina, occorreva fare una denuncia  in comune (mi sembra al dazio) e specificare oltre la quantità anche il tipo di recipiente e il luogo dove questo era custodito.  Questo perché dall’acquerello, previa distillazione veniva ricavata la  grappa. Questo mezzovino, tipo di bevanda povera ma molto popolare e diffusa, si trova rammentata in tutti i trattati di agricoltura dal secolo XVIII in poi.

Negli anni che vanno dal 1923 al 1925, tutte le nostre  viti che  producevano  vino, vino anche pregiato,  subirono  un forte attacco  di fillossera, una micidiale malattia della vite comparsa anche negli anni ’80 del secolo XIX ma senza fare grandi danni. Il vocabolo “fillossera” deriva da latino scientifico  Philloxera composto dalla parola greca  Phyllon (foglia) e Xeros (secco)  e indica una malattia che  fa morire  in breve tempo  la pianta della vite. In quel periodo tutte le nostre viti del piano e della collina furono sotto attacco di questa malattia e le conseguenze furono gravissime per gli agricoltori.

 È un dato certo che la fillossera, poco dopo la meta dell’800 venne inconsapevolmente introdotta in Inghilterra e Francia dagli Stati Uniti d’America e la diffusione avvenne tramite alcuni tipi di barbatelle di vite americana importate in Europa in sostituzione delle vite nostrane perché si  dimostravano resistenti all’Oidium, malattia che in quell’epoca infieriva veramente distruggendo intere coltivazioni di  viti, mentre non si conosceva allora nessun rimedio contro tale malanno (oggi ci sono composti a base di zolfo, oppure lo stesso zolfo in polvere). Così, per difendersi da un guaio, se ne diffondeva un altro di gran lunga più grave. Alla scoperta dei primi  sintomi filosserici, in Francia l’ansia dei viticoltori fu grandissima, tanto che non si riusciva a determinare la causa mentre la malattia prendeva sempre  più campo, seguita a breve distanza dalla morte delle viti colpite. Solo nel 1868, un biologo francese scoprì il piccolo e nefasto insetto, causa del tanto disastro e che fu chiamato Phylloxera  Vastatrix. Lo studio  sulla malattia si spostò poi negli Stati Uniti, paese di origine  del male, e fu scoperto che proprio in quella nazione vi erano alcuni tipi di barbatelle di vite che erano immuni alla malattia, bastava innestare i tipi di vite europea sulle barbatelle americane di viti immuni alla filossera e la vite era salva; per fare questo occorreva però tagliare tutte le viti esistenti perché   cresciute da maglioli nostrani e sostituirle con quelle innestate, necessitavano  capitali ma soprattutto anni. Per  gli agricoltori il campanello di allarme per  questa malattia della vite suonò alla fine del ‘800, ma allora rimase circoscritta e con effetti negativi moderati, poi venne la Grande Guerra e gli uomini validi furono chiamati al fronte con il risultato, che mancando le giovani generazioni,  non fu garantito  lo stesso livello di cura dei campi come anteguerra. Si pensa che proprio la carenza di manodopera  che accudiva le  viti sia stata la causa della comparsa pochi anni dopo della micidiale malattia.

Nelle nostre colline la fillossera, seccò tutte le viti e portò alla disperazione i contadini, soprattutto i mezzadri  che in annate normali  scambiavano con il fattore  il vino con il grano, non producendo vino sparì anche l’acquerello e la scomparsa durò diversi anni, tanto che nel 1929 risultavano nelle nostre zone reimpiantati solo un quarto dei vitigni perduti. Questo si tradusse per i mezzadri in un aumento del loro debito  nei confronti della fattoria.  Il problema oltre che economico diventò  anche motivo di attrito fra proprietari e mezzadri, in quanto che la piantagione di nuovi vitigni  innestati su barbatelle americane immuni alla fillossera, comportava grossi investimenti in denari e in manodopera da parte dei possidenti che cercarono di reintrodurre  nei contratti di mezzadria il “patto di  fossa”. Il “patto di fossa”, abolito prima della Grande Guerra consisteva nell’obbligo  dei mezzadri di fare  ogni anno  gratis determinati metri di scavo di lunghezza (fosse) per piantare le viti. Questa idea non andò avanti, ma  vista le propensione dei proprietari a investire  pochissimo nei  poderi, chi ci rimise furono sempre i mezzadri i cui conti sul libretto colonico  erano sempre più “in rosso”, addirittura in una terra a vocazione vinicola come il Chianti, fu pensato seriamente di abbandonare le produzione di vino  per altre produzioni. Per ovviare alla scomparsa della vite, anche nelle nostre zone collinari si cercò di incrementare  la produzione del giaggiolo, che era un produzione storica ma aveva grosse difficoltà poi nella vendita del prodotto finito, in quanto  i pochissimi  grossisti che compravano il  giaggiolo,in presenza di un aumento della produzione e  messisi d’accordo fra loro, bloccarono  le compere fino a che il prezzo del prodotto finito non calò alla cifra che loro volevano, Per questo ci fu un crollo del prezzo, con il risultato che le famiglie coloniche si trovavano a essere più povere e dover lavorare di più.

Sempre in quegli anni, in mancanza del vino,fu spinto molto, per incrementare la produzione di grano. Grano che in precedenza nei nostri poderi della Setteponti  ne veniva seminato pochissimo  perché comprato dagli agricoltori soprattutto con i proventi della vendita dell’olio. Nel  terreno  arido, sassoso  dei terrazzamenti di fine  ‘700 di cui sono costituite le nostre  colline sotto il Cocollo , le Casacce,  Poggio Sarna ecc.  il grano non ha mai trovato l’ambiente adatto. Il grano vuole terreno sciolto e profondo e non rende se  vi è il sasso o il pancone di galestro dove attecchiscono bene e crescono meglio l’olivo, la vite e il giaggiolo. Il risultato fu misero, tanto che in un ettaro di terrazzamenti, stando lontano dagli olivi e dal ciglio dei pianelli dove veniva piantato il giaggiolo, si ebbe un produzione media di 11 q. di grano ad ettaro, mentre nei piani dell’Arno si superava comodamente i 45 q.  L’agricoltura di collina era veramente in condizioni pietose, erano sparite tutte le vite e questo anche ai poderi di fondovalle , il grosso problema era  che i proprietari, fattorie comprese, non avevano fretta a reimpiantare  nuovi filari di vite in quanto volevano la certezza, che si matura con il tempo, che la fillossera  fosse stata debellata. Ad aggravare la situazione venne in tutta Italia nella metà di Febbraio 1929 un freddo polare proveniente dalla Siberia,si ghiacciò completamente il lago Trasimeno e la laguna di Venezia  e le temperature scesero intorno ai -16° /17 ° , talmente rigide che  bruciarono tutti gli olivi, un po’ come accadde nel 1985 però in una forma leggermente meno grave, in quanto agli olivi rimase il tronco e furono tagliati tutti rami (nel 1985 alla quasi totalità delle piante di olivo furono tagliate poco sopra la terra .Iniziò l’anno 1930 con la nostra agricoltura di collina che aveva perso tutte le viti e tutti gli olivi e questo stato di cose creò disperazione e sconforto nelle famiglie contadine, soprattutto mezzadrili.

Molte famiglie coloniche cercarono di lasciare la collina per sistemarsi nei poderi di fondovalle, dove era predominante la  cultura dei cereali e l’allevamento del bestiame. Chi rimase nelle colline, tirò la cinghia per diversi anni, le fattorie dilazionarono il pagamento dei debiti che i mezzadri avevano contratto  con la proprietà, molti mezzadri  andarono a lavorare  a giornata nelle stesse fattorie  che fecero scassare  anche terreni prima incolti e in posizioni difficili, mutando l’assetto morfologico  per essere lavorati bene, la produzione dei bachi da seta, anche se iniziava la crisi dovuta alla seta artificiale, riprese vigore, come importante fu la produzione di giaggiolo. A molti poderi di collina fu aggregato un pezzo di terra nel fondovalle adatto alla coltivazione del grano, come pure, a questi poderi fu aggiunto anche un pezzo di bosco  di castagni (selva) per fare la farina di castagne.   Lungo e sopra la strada dei Sette Ponti si cominciarono a vedere dopo un po’ le prime vigne piantate tutte con viti innestate in barbatelle americane, ma nel 1939 non si era raggiunta  ancora la produzione di vino antecedente la Grande Guerra.

Fu un periodo durissimo, e l’eco  negativo di questi anni è durato a lungo e in parte dura ancora  perchè, anche se i sopravvissuti attuali di quel periodo sono rimasti  pochissimi, questa simultaneità di eventi catastrofici per la nostra agricoltura collinare è ormai entrata nella storia degli uomini e dei  nostri paesi.

                                                                                                                                     Foto e testo di Vannetto Vannini  

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