Nel sistema collinare che incombeva sopra alla provinciale dei Sette Ponti, la forma di conduzione prevalente dell’agricoltura era stata sin dall’età medievale quella mezzadrile con i propri meccanismi interni e le proprie specificità. Il carattere statico del sistema mezzadrile era caratterizzato da una scarsa propensione dei proprietari terrieri agli investimenti e miglioramenti fondiari, da bassi livelli di capitale investito nel podere che aveva come risoluzione una bassa produttività. Le fattorie ubicate nei paesi della provinciale possedevano, da antica data, grosse proprietà fondiare sia a monte della Sette Ponti che a quote basse sotto la Setteponti. Il sistema di fattoria, era un’organizzazione tesa a ricavare dai terreni il massimo rendimento con la minima spesa necessaria ed era un’organizzazione che si era data una struttura tale da essere in grado con frantoi, molini, torchi, tabaccaie, di lavorare il prodotto ricavato dalla coltivazione dei terreni e contemporaneamente esautorare il mezzadro da qualsiasi decisione per il tipo di coltivazioni e la rotazione delle coltivazioni da adottare.
Il fattore teneva singolarmente per ogni famiglia mezzadrile un’amministrazione, un conto economico con le voci di spese sostenute e le entrate avute sia dal mezzadro che dalla fattoria nella conduzione annuale del podere. Nella famiglia mezzadrile, l’unico referente riconosciuto con il quale il fattore parlava di amministrazione e di interessi finanziari era il “capoccia”, un membro della famiglia che sapeva “leggere, scrivere e far di conto”, eletto da gli stessi a questo incarico. Elemento indispensabile per tenere a termine di legge l’amministrazione di un podere a conduzione mezzadrile era il “Libretto colonico”, del libretto che veniva comprato nelle cartolibrerie , ve ne erano due copie, una per il fattore e l’altro per il capoccia e vi veniva segnato dal concedente il contratto di mezzadria tutte le voci a credito e a debito relative a quel podere, per ogni voce c’era la data e la motivazione. Nel libretto colonico vi erano somme piccole ma anche molto sostanziose derivanti dalla vendita di vitelli, maiali, pecore e capre in quanto la quota spettante al mezzadro non veniva data subito all’atto della vendita, ma veniva presa dall’amministrazione, segnata nel libretto economico e contabilizzata a fine anno ai saldi, in effetti era per la famiglia mezzadrile una somma immobilizzata. Nel contratto mezzadrile inoltre veniva fatto riferimento alle “prestazioni gratuite” che erano forme di lavoro gravoso e umiliante che il colono doveva garantire ogni anno alla proprietà, e alla quantità di “regalie” le quali consistevano in un certo numero di paia di capponi, galline, piccioni,agnelli che il mezzadro doveva portare, soprattutto in determinati periodi dell’anno alla fattoria. Il numero mancante delle prestazioni gratuite, a fine anno veniva monetizzato e la quota risultante registrata nel libretto colonico fra i crediti che la fattoria vantava nei confronti del mezzadro, cosi anche per le regalie, stimando il valore degli animali non regalati. Questo stato di cose che la parte padronale cercherà di mantenere intatto anche nell’immediato secondo dopo guerra, creerà contrasti e agitazioni sindacali promosse dai mezzadri che volevano abolire le prestazioni gratuite e le regalie ma soprattutto riscuotere all’atto della vendita del bestiame la parte spettante. Vi furono grosse dispute, scioperi , vennero abolite le regalie e le prestazioni gratuite ma il problema di riscuotere subito la quota spettante ricavata dalla vendita del bestiame non venne mai risolto fra le parti in contrasto, arrivò poi l’abbandono dei poderi da parte dei coloni e il problema cessò.
In prossimità della fine dell’anno, il fattore con il capoccia facevano il conguaglio finanziario riguardante il podere e spesse volte (quasi sempre) il conto economico era in passivo per il contadino. Nei poderi sopra alla Setteponti, dove veniva prodotto un ottimo vino tanto da essere menzionato (vino di Gropina) dal Redi nel suo “Bacco in Toscana”,era costume per limitare o azzerare il debito che il contadino aveva nei confronti della proprietà, di lasciare alla fattoria tutto il vino prodotto nella stagione e la famiglia mezzadrile bere per tutto l’anno l’acquerello o mezzovino ( va da se poi che i contadini furbi qualche botte di vino buono durante la vendemmia l’avevano nascosta e messa da parte).
Cosa era l’acquerello o mezzovino di cui oggi solo le persone anziane serbano un ricordo ? Era una specie di vino leggerissimo, in chimica si sarebbe chiamato “soluzione acquosa leggermente alcolica” che veniva fatta dopo che il colono aveva svinato. In effetti, nei tini, tolto tutto il vino rimanevano le vinacce, ed era proprio su queste vinacce che si mescolava una certa quantità di acqua la quale lavandole, solubilizzava l’alcol rimanente e i residui zuccheri. Per fare le cose bene, ricordo che nelle botti delle vinacce, oltre a aggiungere l’acqua, si aggiungeva anche qualche cistella di uva lasciata proprio per la bisogna, che fungeva da catalizzatore per riprendere una breve bollitura di tutta la massa acquosa leggermente alcolica, bollitura dovuta alla quantità di uva aggiunte e al residuo zuccherino che le vinacce avevano mantenuto. Dopo una settimana o meno si metteva nelle damigiane l’acquerello e si toglieva dal tino la vinaccia la quale, essendo esausta non era buona per fare la grappa. L’acquerello, che era fatto in tutt ‘Italia, quindi una pratica molto diffusa nelle campagne (in Piemonte nelle Langhe era chiamato “Vinot”) ha avuto una grande importanza durante la mezzadria perché molto bevuto dai contadini e non soggetto a tutte quelle leggi chimico-fisiche-biologiche che rendevano ai coloni la conservazione del vino una cosa molto difficile (i contadini del piano che avevano un gran numero di viti loppiate, cercavano a giugno di aver venduto tutto il vino, in quanto con l’arrivo dell’estate il vino “girava”). In effetti, ‘acquerello, non essendo un vino, ma solo una soluzione di acqua leggermente alcolica, si manteneva bene, in estate poi tutti i contadini della Setteponti avevano una “grotta” scavata nel sansino di una balza, grotta che fungeva da frigorifero d’estate e calda d’inverno (una grotta ben fatta e isolata termicamente, con una piccola apertura d’ingresso e senza finestre, manteneva la solita temperatura sia d’estate che d’inverno). L’acquerello, appena chiaro si beveva e continuava ad esserebevuto anche durante l’estate. Per esperienza vi posso dire che quasi sempre veniva un prodotto che era veramente buono e gustoso, tendente al frizzante, ne potevamo bere tanto perché non c’era pericolo di “sbornia”. Una legge che nessuno dei contadini sapeva, era che per la quantità di acquerello che un colono aveva in cantina, occorreva fare una denuncia in comune (mi sembra al dazio) e specificare oltre la quantità anche il tipo di recipiente e il luogo dove questo era custodito. Questo perché dall’acquerello, previa distillazione veniva ricavata la grappa. Questo mezzovino, tipo di bevanda povera ma molto popolare e diffusa, si trova rammentata in tutti i trattati di agricoltura dal secolo XVIII in poi.
Negli anni che vanno dal 1923 al 1925, tutte le nostre viti che producevano vino, vino anche pregiato, subirono un forte attacco di fillossera, una micidiale malattia della vite comparsa anche negli anni ’80 del secolo XIX ma senza fare grandi danni. Il vocabolo “fillossera” deriva da latino scientifico Philloxera composto dalla parola greca Phyllon (foglia) e Xeros (secco) e indica una malattia che fa morire in breve tempo la pianta della vite. In quel periodo tutte le nostre viti del piano e della collina furono sotto attacco di questa malattia e le conseguenze furono gravissime per gli agricoltori.
È un dato certo che la fillossera, poco dopo la meta dell’800 venne inconsapevolmente introdotta in Inghilterra e Francia dagli Stati Uniti d’America e la diffusione avvenne tramite alcuni tipi di barbatelle di vite americana importate in Europa in sostituzione delle vite nostrane perché si dimostravano resistenti all’Oidium, malattia che in quell’epoca infieriva veramente distruggendo intere coltivazioni di viti, mentre non si conosceva allora nessun rimedio contro tale malanno (oggi ci sono composti a base di zolfo, oppure lo stesso zolfo in polvere). Così, per difendersi da un guaio, se ne diffondeva un altro di gran lunga più grave. Alla scoperta dei primi sintomi filosserici, in Francia l’ansia dei viticoltori fu grandissima, tanto che non si riusciva a determinare la causa mentre la malattia prendeva sempre più campo, seguita a breve distanza dalla morte delle viti colpite. Solo nel 1868, un biologo francese scoprì il piccolo e nefasto insetto, causa del tanto disastro e che fu chiamato Phylloxera Vastatrix. Lo studio sulla malattia si spostò poi negli Stati Uniti, paese di origine del male, e fu scoperto che proprio in quella nazione vi erano alcuni tipi di barbatelle di vite che erano immuni alla malattia, bastava innestare i tipi di vite europea sulle barbatelle americane di viti immuni alla filossera e la vite era salva; per fare questo occorreva però tagliare tutte le viti esistenti perché cresciute da maglioli nostrani e sostituirle con quelle innestate, necessitavano capitali ma soprattutto anni. Per gli agricoltori il campanello di allarme per questa malattia della vite suonò alla fine del ‘800, ma allora rimase circoscritta e con effetti negativi moderati, poi venne la Grande Guerra e gli uomini validi furono chiamati al fronte con il risultato, che mancando le giovani generazioni, non fu garantito lo stesso livello di cura dei campi come anteguerra. Si pensa che proprio la carenza di manodopera che accudiva le viti sia stata la causa della comparsa pochi anni dopo della micidiale malattia.
Nelle nostre colline la fillossera, seccò tutte le viti e portò alla disperazione i contadini, soprattutto i mezzadri che in annate normali scambiavano con il fattore il vino con il grano, non producendo vino sparì anche l’acquerello e la scomparsa durò diversi anni, tanto che nel 1929 risultavano nelle nostre zone reimpiantati solo un quarto dei vitigni perduti. Questo si tradusse per i mezzadri in un aumento del loro debito nei confronti della fattoria. Il problema oltre che economico diventò anche motivo di attrito fra proprietari e mezzadri, in quanto che la piantagione di nuovi vitigni innestati su barbatelle americane immuni alla fillossera, comportava grossi investimenti in denari e in manodopera da parte dei possidenti che cercarono di reintrodurre nei contratti di mezzadria il “patto di fossa”. Il “patto di fossa”, abolito prima della Grande Guerra consisteva nell’obbligo dei mezzadri di fare ogni anno gratis determinati metri di scavo di lunghezza (fosse) per piantare le viti. Questa idea non andò avanti, ma vista le propensione dei proprietari a investire pochissimo nei poderi, chi ci rimise furono sempre i mezzadri i cui conti sul libretto colonico erano sempre più “in rosso”, addirittura in una terra a vocazione vinicola come il Chianti, fu pensato seriamente di abbandonare le produzione di vino per altre produzioni. Per ovviare alla scomparsa della vite, anche nelle nostre zone collinari si cercò di incrementare la produzione del giaggiolo, che era un produzione storica ma aveva grosse difficoltà poi nella vendita del prodotto finito, in quanto i pochissimi grossisti che compravano il giaggiolo,in presenza di un aumento della produzione e messisi d’accordo fra loro, bloccarono le compere fino a che il prezzo del prodotto finito non calò alla cifra che loro volevano, Per questo ci fu un crollo del prezzo, con il risultato che le famiglie coloniche si trovavano a essere più povere e dover lavorare di più.
Sempre in quegli anni, in mancanza del vino,fu spinto molto, per incrementare la produzione di grano. Grano che in precedenza nei nostri poderi della Setteponti ne veniva seminato pochissimo perché comprato dagli agricoltori soprattutto con i proventi della vendita dell’olio. Nel terreno arido, sassoso dei terrazzamenti di fine ‘700 di cui sono costituite le nostre colline sotto il Cocollo , le Casacce, Poggio Sarna ecc. il grano non ha mai trovato l’ambiente adatto. Il grano vuole terreno sciolto e profondo e non rende se vi è il sasso o il pancone di galestro dove attecchiscono bene e crescono meglio l’olivo, la vite e il giaggiolo. Il risultato fu misero, tanto che in un ettaro di terrazzamenti, stando lontano dagli olivi e dal ciglio dei pianelli dove veniva piantato il giaggiolo, si ebbe un produzione media di 11 q. di grano ad ettaro, mentre nei piani dell’Arno si superava comodamente i 45 q. L’agricoltura di collina era veramente in condizioni pietose, erano sparite tutte le vite e questo anche ai poderi di fondovalle , il grosso problema era che i proprietari, fattorie comprese, non avevano fretta a reimpiantare nuovi filari di vite in quanto volevano la certezza, che si matura con il tempo, che la fillossera fosse stata debellata. Ad aggravare la situazione venne in tutta Italia nella metà di Febbraio 1929 un freddo polare proveniente dalla Siberia,si ghiacciò completamente il lago Trasimeno e la laguna di Venezia e le temperature scesero intorno ai -16° /17 ° , talmente rigide che bruciarono tutti gli olivi, un po’ come accadde nel 1985 però in una forma leggermente meno grave, in quanto agli olivi rimase il tronco e furono tagliati tutti rami (nel 1985 alla quasi totalità delle piante di olivo furono tagliate poco sopra la terra .Iniziò l’anno 1930 con la nostra agricoltura di collina che aveva perso tutte le viti e tutti gli olivi e questo stato di cose creò disperazione e sconforto nelle famiglie contadine, soprattutto mezzadrili.
Molte famiglie coloniche cercarono di lasciare la collina per sistemarsi nei poderi di fondovalle, dove era predominante la cultura dei cereali e l’allevamento del bestiame. Chi rimase nelle colline, tirò la cinghia per diversi anni, le fattorie dilazionarono il pagamento dei debiti che i mezzadri avevano contratto con la proprietà, molti mezzadri andarono a lavorare a giornata nelle stesse fattorie che fecero scassare anche terreni prima incolti e in posizioni difficili, mutando l’assetto morfologico per essere lavorati bene, la produzione dei bachi da seta, anche se iniziava la crisi dovuta alla seta artificiale, riprese vigore, come importante fu la produzione di giaggiolo. A molti poderi di collina fu aggregato un pezzo di terra nel fondovalle adatto alla coltivazione del grano, come pure, a questi poderi fu aggiunto anche un pezzo di bosco di castagni (selva) per fare la farina di castagne. Lungo e sopra la strada dei Sette Ponti si cominciarono a vedere dopo un po’ le prime vigne piantate tutte con viti innestate in barbatelle americane, ma nel 1939 non si era raggiunta ancora la produzione di vino antecedente la Grande Guerra.
Fu un periodo durissimo, e l’eco negativo di questi anni è durato a lungo e in parte dura ancora perchè, anche se i sopravvissuti attuali di quel periodo sono rimasti pochissimi, questa simultaneità di eventi catastrofici per la nostra agricoltura collinare è ormai entrata nella storia degli uomini e dei nostri paesi.
Foto e testo di Vannetto Vannini