Ricordo bene che nei primi anni del 1950, le persone molto anziane si ricordavano di avere sentito parlare dai loro genitori e nonni di una grande pestilenza di colera che colpì la nostra zona a metà del 1800.
In effetti la pestilenza ci fu nel 1855 e non solo in Toscana ma in gran parte d’Europa e questo, pur essendo riportato nei libri delle parrocchie, è un capitolo poco conosciuto della nostra storia. Il morbo arrivò dovunque, anche nei più sperduti paesi di montagna, tanto che nel territorio dell’attuale provincia di Arezzo furono contati 3000 morti circa, solo 400 in città e per fronteggiare l’epidemia vennero aperti in ogni vallata dei lazzaretti che erano ospedali improvvisati e d’emergenza. Come è naturale il colera colpì la Toscana d’estate e per primo una città portuale e piena di traffici e movimento come Livorno dove i primi casi di colera si ebbero nell’estate 1854, nell’estate successiva 1955 si estese su tutta la regione.
L’epidemie sono sempre state un problema gravissimo fino alla Seconda Grande Guerra, negli anni trenta del 1900 in un paese vicino al mio ci furono cinque casi mortali di colera dovuto ad acqua inquinata, ma soprattutto nei secoli passati basta leggere la storia dei popoli. Il colera è una epidemia molto contagiosa che provoca un grande indebolimento del fisico a causa di vomito e diarrea persistente e allora, non essendoci farmaci idonei, spesso portava alla morte.
In seguito a questa epidemia e in base alle leggi impartite dal governo furono attuate alcune misure igieniche come pulizia delle fogne, delle case, sicurezza nell’acqua da bere, controllo sulle persone che facevano transumanza in Maremma e fu proibito, come già era stato consigliato alcuni decenni prima dal governo granducale, di seppellire i morti sia all’interno che intorno alle chiese. In tutti i paesi fu creato un cimitero, distante dalle abitazioni , in luogo ventilato e recintato da un alto muro.
In Casentino l’epidemia fu forte come nel resto della provincia aretina e arrivò nell’estate 1855 estendendosi in tutta la vallata. Vi fu solo un paese dove l’epidemia non arrivò e questa località fu Garliano nel comune di Castel San Niccolò, fra l’altro anche l’epidemie precedenti dei secoli passati si erano fermate ai confini del territorio della parrocchia di questa borgata.
Garliano è un piccola frazione a quota circa 700 m. suddivisa in tanti borghi sparsi e uniti fra loro da antiche tradizioni. Fu uno dei quattro quartieri fra se legati da un solo statuto e da una struttura organizzativa particolare, con cui fu istituita a metà del secolo XIV la Podesteria di Castel San Niccolò che dette vita alla cosiddetta “Montagna Fiorentina”. Tutta la zona è piena di toponimi di origine romana come Garliano (prediale di Garilius), Rifiglio (Rivu-Fillius), Cascese (Cassius), Rigianni (Rivu-Iohannes), ma anche etruschi come Solano (Solanius), Ristonchi (Aristia)… Situato in un anfiteatro naturale, immerso fra boschi di castagni sulle pendici casentinesi del Pratomagno ha un territorio solcato e profondamente inciso dai torrenti che tagliano il terreno e lo delimitano in zone omogenee, però con difficili comunicazioni e questo spiega le ragioni per cui nel profondo passato le popolazioni dettero vita a comunità indipendenti. L’asse portante di tutta l’idrografia della vallata è dato dal torrente Solano, un torrente molto capriccioso, tumultuoso e sempre ricco d’acqua che nasce a circa 1400 m. in Pratomagno sotto il Varco di Castelfranco e che dopo un percorso di 15 km si getta nell’Arno a Campaldino.
Con la tipica economia della nostra montagna, Garliano ha sempre vissuto di allevamenti ovini transumanti in Maremma fornendo uomini e vergai ( capi transumanza) più degli altri paesi del Casentino, importante la produzione di carbone, famosi il “tosini” che si spostavano in tutta la regione per tosare le pecore, ma importante anche l’agricoltura come i “fagioli di Garliano” , le ciliegie scure e il vino, un vino abbastanza buono ma un po’ aspro come tutti i vini di montagna, prodotto in terrazzamenti ricavati nelle coste esposte a solatio e portati alla massima redditività con un lavoro lungo e faticoso. Ma “l’eccellenza “ di Garliano sono state le bullette e i chiodi per carpentieri e muratori, comprese quelle per mettere sotto la suola degli scarponi da montagna. Di questa attività non è rimasto e non conosciamo niente,nemmeno la tecnica usata nella fabbricazione di questa chioderia, sembra che il centro di produzione più importante sia stato a Baribolle, una borgata di Garliano e che le barrette di ferro venissero dalla ferriera di Pagliericcio, località poco distante dove ancora oggi si tramanda la lavorazione del ferro
Il vanto dei montanari di Garliano però è che il loro paese è sempre stato immune a tutte le pestilenze, e non solo di colera ma anche di peste, manifestatesi nel corso dei secoli in Casentino e che la memoria paesana si tramanda. Una verità, che si trasmette di generazione in generazione oralmente, è che il morbo si è sempre fermato ad una certa distanza dal paese, distanza che è data dalla superficie intorno alla borgata dell’area coperta dal suono delle campane della chiesetta al cui interno è la pittura della Madonna che una volta, quando la chiesa non c’era, si trovava nella maestà in vetta a quel poggio. In effetti, è come se il suono delle campane della chiesetta della Maestà, fin dove era sentito, respingesse l’epidemia. Difficile dare una spiegazione scientifica a questo evento e se andate a Garliano come abbiamo fatto in una escursione io, Tina l’Alpina e Mariella l’anno scorso d’estate, la gente del paese mostra con orgoglio le campane della chiesetta e l’interno della medesima con il quadro della” Madonna della peste” che ha salvato dal morbo più volte la borgata.
La memoria paesana di Garliano non arriva alla “peste nera” del 1340 descritta dal Boccaccio, ma parte dalla epidemia di peste del 1530 che non toccò il paese , epidemia che fu molto virulenta in Casentino come nelle vallate toscane perché trasmessa dall’esercito spagnolo che aveva assediato Firenze, riportando nel ducato la famiglia dei Medici. Nel 1630 arrivò la peste descritta dal Manzoni nei Promessi Sposi e le fonti orali garlianesi dicono che il paese, all’avvicinarsi del morbo, prese la decisione di suonare sempre, giorno e notte , le campane della chiesetta della maestà. Per tutto il periodo del contagio furono così suonate le campane dalla popolazione del paese dandosi il cambio facendo dei turni; così poi fecero durante l’avvicinarsi delle altre pestilenze nei secoli successivi. Il risultato è stato che mai a Garliano è arrivata una pestilenza e questo, per la gente del posto, è dovuto alla protezione,trasmessa attraverso il suono delle campane,della Madonna della Peste che era collocata in una maestà in cima ad un poggio nei pressi del paese. In onore di questa Madonna poi fu edificata una chiesetta che oggi è chiamata “chiesa della Maestà” ed è stata restaurata recentemente.
.La chiesetta è generalmente chiusa, però può essere fatta aprire chiedendo ad una signora che abita nella casa a sinistra ai piedi della breve salita che porta alla chiesa, la signora è molto gentile e molto disponibile.
Garliano, un minuscolo paese di piccole casette di pietra dove storia e leggenda si intrecciano mirabilmente in un contesto silvestre bellissimo del Pratomagno casentinese. Un paese di montagna dove tutta la popolazione si stringe ancora fiduciosa e serena davanti ad una immagine santa, perchè in essa percepisce la storia paesana dei secoli passati e considera questa pittura sacra ancora un approdo sicuro, al quale rimane ancorato fortemente il paese.
Foto e testo di Vannetto Vannini