Compito del programma “Terre Alte” della nostra sezione CAI è quello di non perdere la memoria di antiche tradizione e usanze del Pratomagno, in quanto vivere in questa montagna fin dopo la seconda grande guerra significava portare avanti una vita durissima, una vita fatta di sacrifici, di rinunce, di solitudine, di lotta contro un ambiente ostile dove le novità e le comodità del fondovalle arrivavano in ritardo e in minima parte. A causa delle strade di collegamento poco buone, in cui fino agli anni cinquanta del secolo scorso i mezzi di trasporto adatti erano soprattutto a trazione animale, non solo le frazioni veramente montane del Pratomagno ma anche paesi come Pulicciano, Menzano, Caspri o agglomerati rurali come Oliveto, Odina, Vignale, Querceto, Sercognano, anche se situati poco sopra la Via dei Setteponti chiamata dai residenti “Via Maestra”, erano considerate a ragione “zone di montagna”. In tutte le frazioni e insediamenti rurali erano vive quelle tradizioni, costumi, memorie, parlata e usanze che da secoli si tramandavano generazioni di montanari; tradizioni ataviche che erano nate per sopperire in qualche modo a certe necessità a cui si poteva fare fronte solo arrangiandosi. D’altra parte lo stile di vita in montagna era abbastanza simile in Pratomagno come nell’Appennino e in altre catene montuose, e io ho trovato usanze e regole non solo di vita, ma anche nelle costruzioni, nelle coltivazioni, nell’artigiano ecc… simili in Carnia, in Alto Adige, nelle Alpi cuneesi, in quelle Marittime e Liguri e in tutto il crinale Appenninico e nel pre-Appennino. Un denominatore comune per tutta la gente di montagna era quello di saper sfruttare in pieno le risorse che poteva offrire il territorio in cui vivevano e questo si manifestava anche nelle costruzioni.
Le costruzioni della nostra montagna in genere erano collocate ai quadranti favorevoli in fatto di soleggiamento e di riparo dai venti, alcune anche di visibilità, erano costruzioni piccole, addossate le une alle altre con strette e basse finestre, soprattutto a solatio e con pareti piene soprattutto a nord. Le stanze avevano il soffitto basso per mantenere il calore e comunicavano con le stanze superiori mediante scale di legno, alcune avevano anche il pavimento di assi di abete o pino; però tutte le case o dipendenze erano fatte di pietra e murate con calce e non con cemento. La caratteristica era che la pietra da calce, pietre da muro, sabbia o rena per mescolare con la calce e lastre per coprire il tetto, erano tutte reperite in loco, da sassi che il montanaro conosceva bene e che solitamente metteva da parte prima, in attesa di un probabile utilizzo. Ricordo bene che nei pressi di alcune case della montagna del Cocollo, erano stati accumulati, con il trascorrere del tempo, mucchi di sassi ed ogni mucchio si riferiva per un particolare uso, c’era il mucchio dei sassi da muro, quello delle lastre per coprire i tetti, il mucchio dei sassi renaioli chiamati “sassi matti”, l’usanza di fare la calce in proprio si era persa dopo la Grande Guerra per le migliorate condizioni viarie di collegamento con il fondovalle dove era possibile comprare e trasportare più agevolmente in montagna il cemento,mentre per il sasso renaiolo l’uso per piccole riparazioni è andato avanti fino al secondo dopoguerra.
Nella nostra montagna la formazione geologica prevalente è costituita da affioramenti di Macigno del Pratomagno che sono comuni al di sopra della Setteponti, il macigno è una pietra sedimentaria costituita da arenarie con strati di argilliti scistose che ha avuto origine nel Periodo Oligocenico, periodo compreso tra i 35 e i 23 milioni di anni fa. Questa pietra è costituita da materiale molto fine, in effetti è una rena, depositatasi nel fondo del mare dopo essere stata trasportato dai fiumi e si è compattata sotto la forza di enormi pressioni idrostatiche dovute alla sovrastante colonna dell’acqua, diventando così roccia. Nella compattezza di questa pietra ha avuto un ruolo determinante anche il collante in quanto i granuli di rena sono legati da un cemento, originato da una precipitazione chimica di minerali formati da ioni presenti nell’acque circolanti tra granello e granello di rena o sabbia; comunemente come legante si rinviene il Carbonato di Calcio sotto forma di Calcite, ma talvolta anche Ossido Ferroso. A seguito di sconvolgenti movimenti della crosta terrestre, questi materiali sono nuovamente riaffiorati e quello che oggi vediamo in banchi o filoni quando facciamo le nostre escursioni, altro non era che il fondo del mare. Dal Macigno del Pratomagno si ricava la pietra serena detta anche pietra forte, utilizzata nelle costruzioni di montagna, però talvolta anche insieme ad altre pietre come l’alberese. Nel Pratomagno le pietre da costruzione non venivano ricavate dal letto dei fiumi come era consuetudine nel fondovalle (le pietre delle antiche mura di Terranuova B. sono costituite in massima parte da ciottoli del Ciuffenna ), ma vi erano delle cave apposite, le quali rimangono tutt’oggi e, nel secondo dopoguerra, quando era in atto la ricostruzione dei paesi distrutti, queste cave sono state riattivate per brevi periodi e hanno avuto un certo peso nella economia di allora dei piccoli paesi sopra e lungo la Via dei Sette Ponti.
Per mantenere insieme le pietre di un muro, occorreva un legante forte e i nostri montanari non usavano il cemento, usavano la calce che veniva fabbricata in montagna dopo un processo di cottura di certi tipi di pietre reperiti in loco e cotti nelle fornaci da calce, fornaci che erano ubicate sempre in vicinanza o all’interno di boschi per il reperimento facile della legna e possibilmente vicino a sorgenti d’acqua. La tecnica per la cottura dei sassi idonei si era tramandata con il tempo; non bisognava solo far fuoco, era necessario conoscere bene i materiali necessari per tale operazione e soprattutto i tempi e il grado di cottura, un po’ come in una carbonaia con i randelli di legno. Fino all’inizio del secolo scorso era usanza che ogni fattoria avesse per proprio uso e consumo una fornace da mattoni seccati al sole ubicata nel fondovalle dove c’era abbondanza di argilla e una di calce ubicata in montagna, dove vi potevano essere anche altre fornaci di più proprietari, altre piccole fornaci potevano poi essere costruite solo per un tempo necessario e dopo abbandonate. Il Pratomagno non era terreno adatto per fornaci di calce come è stato il Chianti, perché la pietra principale è l’arenaria, però dove vi era terreno calcareo, come sopra ad Oliveto (Buca delle Fate/ Cercato), sappiamo della presenza di una fornace di calce , come pure dietro al Monte Cocollo sappiamo che esistono i resti di una fornace di calce invasa e nascosta dalla vegetazione, mentre i ruderi di un’altra fornace di calce sono visibili a Pulicciano sul sentiero che porta alla Casina. Ma nella nostra montagna, l’assenza di Calcite (Ca CO3) era sostituita dalla presenza di un tipo di pietra , l’alberese, che veniva impiegata anche in muratura e per pavimentare le stalle, meno invece per coprire i tetti in quanto, quelle di alberese sono generalmente lastre spesse e molto pesanti. La pietra alberese, che in base ai minerali inglobati può avere colore sia bianco che scuro, è stata importante per il Pratomagno perché è un materiale lapideo di natura calcarea che ha avuto diversi usi e con una percentuale di Carbonato di Calcio (CaCO3) dall’80 al 94 % può essere usata per produrre un’ottima calce da malta, sicuramente usata nelle fornaci sopramenzionate. Il processo per fabbricare la calce era effettuato in una fornace fatta con i sassi murati e alta diversi metri a forma di tronco di cono e con focolare nella parte bassa, circondata quasi completamente da terrapieni in modo che ci fosse la minor dispersione di calore ; riempita di pietre calcaree tritate bene e dato fuoco alla legna si iniziava la cottura portando la temperatura a 800 / 1000 ° C. In questa fase avviene una reazione chimica che porta alla liberazione di Anidride Carbonica (CO2) con la trasformazione del Carbonato di Calcio in Ossido di Calcio , conosciuto anche come calce viva: CaCO3 + Calore = CaO + CO2 Per ottenere la calce idrata che è poi la calce da malta, detta anche calce spenta, il materiale deve essere stato frantumato finemente e subire una azione di spegnimento con l’acqua, dove c’è un violento rilascio di calore e l’ossido diventa idrossido secondo la seguente reazione chimica: CaO + H20 → Ca (OH)2. Per il mantenimento della calce spenta a fini dell’ utilizzo c’erano poi accorgimenti particolari che esulano da questo articolo di Terre Alte.
Per il reperimento della sabbia o rena per muratura non era possibile cercarla nel letto dei torrenti come veniva fatto nel fondovalle, in quanto la forte pendenza dei corsi d’acqua impedisce la deposizione della sabbia. Questo era un problema grosso che veniva risolto con la frantumazione dei “sassi matti”. Il sasso matto, chiamato anche “sasso renaiolo” è una pietra di arenaria di colore marrone poco compatta, che sia gli agenti atmosferici come le ghiacciate, sia una semplice azione meccanica di frantumazione con un martello pesante trasforma molto bene in sabbia o rena color marrone. Il colore marrone deriva dalla presenza di ossido di ferro e la poca compattezza è dovuta ad una assenza o quasi di collante fra i granuli e soprattutto perché questo tipo di sasso si è formato in fondali marini poco profondi, quindi senza essere sottoposto ad una elevata pressione idrostatica di compattamento. In montagna il sasso matto era molto ricercato e se trovato veniva messo da parte, era ed è molto frequente sopra e sotto la Via dei Setteponti e se ne trovano tantissimi nelle pareti delle Balze, arrivati durante i diluvi provenienti dalla montagna. Nella zona del Monte Cocollo vi sono oltre che dei sassi di questo tipo, anche degli affioramenti superficiali a banco. L’aggettivo “matto” dato a questo sasso dai contadini, non ha niente a che vedere con il termine “mattaione” con il quale si identifica un tipo di terreno molto comune sopra e sotto la Via dei Setteponti, formato soprattutto da argilla salina e gesso, dove la vite attecchisce bene e produce un ottimo vino. Il sasso viene chiamato “matto” perche non ci si può fidare in termini di compattezza, a causa della facilità con cui si frantuma.
Per quanto riguarda la copertura dei tetti che fino al secondo dopoguerra erano rigorosamente costituiti da una copertura di lastre sovrapposte in più ordini, queste lastre venivano ricavate da massi che erano caratterizzati da una tessitura scistosa abbastanza marcata, cioè tendente a sfaldarsi facilmente in lastre sottili. Lo scisto è il risultato della trasformazione di argilla sottoposta ad alte pressioni e temperature nelle quali i cristalli filo silicati presenti si ordinano in una direzione precisa creando delle falde dette appunto “piani di scistosità”. Questi massi, una volta individuati venivano lavorati con appositi strumenti a taglio e con cura ne venivano ricavate le lastre, che in alcune parti delle Alpi sono chiamate anche “lose”. Un altro sistema di approvvigionamento delle lastre era dato dalla presenza di cave di alberese, in cui la pietra era presente oltre che in blocchi anche in lastre, ma venivano scelti i pezzi più piccoli e meno pesanti.
Foto e testo di Vannetto Vannini