All’inizio dell’anno 1000 fu fondata la Pieve di Santa Maria a Scò, perfettamente allineata con le altre pievi romaniche di San Giustino, Gropina, Cascia e Pitiana lungo il tracciato etrusco-romano della Cassia antica/Clodia. Essendo una chiesa battesimale, il luogo in cui fu costruito l’edificio religioso aveva una discreta importanza viaria, infatti oltre che i facili collegamenti trasversali e con il fondovalle vi partiva anche una strada di montagna, la quale attraversando il Pratomagno al Varco di Gastra m.1393, permetteva il collegamento fra Valdarno e Casentino. Intorno alla Pieve, senza nessuna fortificazione fu costruito il paese che sicuramente per qualche periodo fu anche il mercatale del castello medievale di Castiglion della Corte sul Poggio della Regina.
Per quanto riguarda l’origine del nome è probabile che Scò, sia la derivazione per aferesi, ovvero caduta della sillaba iniziale, da Resco o Riesco, quindi in origine Pian di Resco o Pian di Riesco.
Il professor Fatucchi Alberto, a proposito del toponimo Scò ha dichiarato che “ per il nome di Scò è bene non avventurarsi in fantasie: è uno dei pochissimi che non riusciamo a spiegare”. Io penso però che si può fare qualche supposizione interessante che ha una sua logica e che, secondo alcuni studiosi di etimologia, sembrerebbe l’ipotesi più probabile. Nella mia libreria, fra le carte topografiche ho una carta topografica del Valdarno, carta IGM 1: 100.000 del 1888 in cui il torrente Resco è indicato con la parola Riesco (una lettera i in più), probabilmente non è un errore di trascrizione perchè, avendo frequentato da giovane il paese di Piandiscò, ricordo bene che le persone di una certa età, nate soprattutto alla fine del secolo 1800, spesso usavano la parola Riesco e non Resco nell’indicare quel torrente. Questa diversità non è una differenza da poco perché la parola “Riesco” potrebbero essere un idronimo in cui “Ri “ sta per Rio = torrente e “ esco” derivante dalla parola latina “aesculus” indicante un tipo di quercia molto comune dalle nostre parti e chiamata “Ischia o Istia “ . Quindi la parola Resco, derivante dal più antico idronimo Riesco, starebbe a indicare il Rio o torrente delle ischie o istie.
L’ischia è un tipo di quercia (rovere) molto comune in tutto il Valdarno e che cresce bene proprio lungo i fiumi o dove c’è una certa umidità nel terreno. L’albero può assumere forme molto grandi e per la Via degli Urbini c’è ne sono ancora alcune enormi. La pianta produce ghiande non pregiate e una legna non molto buona per bruciare tanto che i contadini dicevano “ nel focolare (focarale) brucia male perchè fa il muso nero”, però è legno ottimo per fare mobili e soprattutto le botti di rovere dove ancora viene invecchiato il vino, grappa e brandy.
Naturalmente sulla etimologia del toponimo Pian di Scò vi sono altre ipotesi, e tutte molto valide.
Lo sviluppo del paese, oltre la presenza di una pieve importante, si deve anche alla costruzione di un canale (Fosso Macinante) che permise la realizzazione di numerosi molini a monte e a valle del paese e determinò l’assetto urbanistico di Piandiscò dalla seconda metà del 1300 fino alla Grande Guerra. Costruire un canale che molto sopra al paese, raccogliesse l’acqua del torrente Resco per indirizzarla e trasportarla, nonostante il territorio accidentato, per tutto l’asse longitudinale del paese, fu un’impresa non di poco conto, ma favorì la successiva costituzione di una attività produttiva artigianale che è rimasta uno dei pilastri dell’economia piandiscoese fino al secondo dopoguerra.
Il Fosso Macinante, chiamato anche berignolo o acquino aveva origine a circa 440 m.s.m. dal torrente Resco all’altezza di Case Campiano, nella vecchia carta topografica IGM 1: 25000 è riportato il laghetto originato da uno sbarramento sul Resco, da cui iniziava il canale del fosso macinante. Durante il suo corso lungo 5 Km,il fosso alimentava molini e frantoi attraversando longitudilmente Pian di Scò secondo quello che oggi è il tracciato dell’attuale Via Roma, il cui percorso sinuoso è dovuto proprio al tracciato del canale il quale doveva conciliare, oltre una costante pendenza anche altri parametri. Dopo ben cinque Km il Fosso Macinante, precipitando nella valle sottostante Montecarelli 250 m.s.m. riversava la sua acqua nel torrente Faella 150 m.s.m. Ancora oggi, chi dalla chiesetta di Valluccio a Faella sale con il vecchio sentiero al santuario di Montecarelli, vede il vecchio tracciato del canale che in parte è ancora pavimentato a lastre per evitare la corrosione dell’acqua sul fondo.
Nel notiziario “ LE GORE “ della PRO LOCO PIANDISCO’ del Marzo 1996 c’è un bell’articolo di Siro Failli intitolato “Frantoi e Mulini a Piandiscò”, lo riporto parzialmente.
La frangitura delle olive e lo sfarinamento dei cereali venivano allora effettuati con una macina di pietra ruotante,( verticalmente per le olive e orizzontalmente per i cereali) su un pernio, mosso da una bestia vaccina o equina che veniva fatta girare con la testa bendata, instancabilmente intorno al “piatto” sul quale venivano versati i raccolti da frantumare o sfarinare. Qualcuno ebbe l’idea di sostituire in tal faccenda, la forza animale con quella idraulica utilizzando l’acqua del torrente Resco. Così sorsero i primi mulini e i primi frantoi lungo il corso del Resco che però scorreva in un letto scosceso e molto profondo, simile ad una spaccatura , rispetto all’altipiano.
Dopo di che, e chissà quando e chissà per opera di chi, dalla località oggi chiamata “ La Turbina”, venne costruita una diramazione, una specie di canale artificiale che, seguendo il dolce declinare del terreno, dopo un percorso di diversi chilometri e con un salto pauroso nei pressi della chiesa di Montecarelli, precipitava a valle passando dalle località Stagi e Le Molina per sfociare poi nel torrente Faella a monte del paese omonimo.
Così oltre ai molini esistenti sulle rive del Resco e quasi dalle sue sorgenti, cioè Valchiere (vedere nel sito CAI Valdarno Superiore – Terre Alte- Valdarno- Reggello – Le Gualchiere: un antico opificio della nostra montagna), dal Molino (rovinato), dalla Turbina, al Cova, altri edifici vennero costruiti lungo questo canale che, col passare del tempo, si chiamò volgarmente Acquino,poi Beringolo (o Berignolo), poi canale del Fosso Macinante, ecc… Il terrapieno che costituiva l’argine di questo fosso artificiale divenne la prima strada di comunicazione perché consentiva, a piedi o a soma, il collegamento fra i vari mulini e le case coloniche esistenti nella zona.
Lungo il percorso dell’acquino vennero scavate le “gore”, cioè delle grandi vasche per la ripresa delle acque, quasi tutte a forma di triangolo con l’angolo di vertice dalla parte di arrivo delle acque stesse e la base addossata ad una costruzione avente al piano terra un mulino per cereali e un frantoio per le olive, le stalle per le bestie da soma e, al piano superiore, l’abitazione del mugnaio.
L’acqua raccolta nella gora, passando per una “cannella”, un rudimentale tubo ricavato da un grosso tronco d’albero svuotato e dotato di altrettanta rudimentale saracinesca, andava a sbattere nelle pale del “ritrecine”, specie di turbina idraulica che con il suo movimento rotatorio faceva azionare le macine vorticosamente e di conseguenza i cereali provenienti dalla “tramoggia” venivano sfarinati.
“Acqua passata non macina più”, recita un vecchio proverbio, ma nel nostro caso l’acqua utilizzata, uscendo dai sotterranei del mulino a monte riprendeva il suo corso nell’acquino per arrivare , dopo un viaggio tortuoso di qualche centinaio di metri, alla gora successiva per rendersi nuovamente utile. E così per tutto il percorso dell’acquino.
I mugnai di Pian di Scò lavoravano ininterrottamente fintanto c’era acqua nella gora accumulando ovviamente farina nella stagione piovosa per non rimanere sprovvisti nei periodi di siccità. Comunque l’arte molitoria era redditizia a quel tempo e i clienti portavano i loro cereali fin dalle più lontane contrade. Così intorno ad ogni molino furono costruite altre case per i figli e i nipoti del mugnaio e si aprirono le botteghe artigiane dei sellai,dei calzolai, degli zoccolai essendo il molino il recapito di tutte le genti.
Ci vollero secoli prima che questi agglomerati si riunissero fra loro per formare un paese propriamente detto. Chi scrive queste modeste parole ricorda, da ragazzo,il nomi di Ripa di Sopra e di Sotto, Ciolla, Masotti, Topo, Casagiorgio, Casacherico, Ceccarini, Casafede, Casalivo, Molinuzzo, Le Fabbriche e via dicendo, tutte piccole borgate.
L’argine dell’acquino che costituiva allora la strada di comunicazione, in molti tratti venne allargato; lo stesso acquino venne in alcuni punti coperto con lastre di pietra e così nacque prima una viottola, poi la strada. L’andamento della via d’acqua è tortuoso e ciò spiega la conformazione dell’attuale Via Roma che attraversa il centro storico ed era l’unica strada del paese fino a pochi anni fa”.
Con il passare del tempo, l’utilizzo dell’energia elettrica portò ad un uso sempre meno frequente dell’acqua del canale, il che ebbe come conseguenza soprattutto nel periodo fra le due grandi guerre la copertura progressiva del fosso macinante fino alla trasformazione in collettore fognario avvenuta negli anni ’60 del secolo scorso. Si chiude così la storia di un complesso, antico sistema che permetteva la disponibilità di energia naturale e che è stato importante per lo sviluppo urbano del paese e fonte di vita per intere generazioni di abitanti di Pian di Scò.
Testo e foto di Vannetto Vannini
1 thought on “Piandiscò: il Fosso Macinante (Acquino/ Berignolo).”