Le genti della nostra montagna erano quasi totalmente dediti alla agricoltura e, se nei paesi collocati appena sopra o lungo la strada dei Sette Ponti era largamente maggioritaria la forma mezzadrile per quanto riguarda la conduzione dei poderi, nelle frazioni montane la mezzadria era inesistente.
Con il passare dei secoli nei paesi ubicati oltre una certa quota di altezza, si era creata una piccola proprietà terriera che però non permetteva di aver di che vivere per tutto l’anno e allora il montanaro diventava anche carbonaio, allevatore, boscaiolo, affittuario, emigrante stagionale…. Fra le piccola proprietà di montagna e i poderi a condizione mezzadrile situati a quote più basse c’era una caratteristica comune, che era quella delle terre particolarmente frazionate e molto lontane dalla abitazione. Questo frazionamento era dovuto, per quanto riguardava i poderi bassi, per il modo in cui era avvenuto l’appoderamento o meglio la costituzione del podere nell’ambito della fattoria di appartenenza. In alto, in montagna i motivi per cui la proprietà era frazionata erano dovuti soprattutto a lasciti testamentari, atti di compra–vendita, ma soprattutto, per dissodamento di pezzi di prati e boschi, una pratica molto comune nei secoli passati. Inoltre anche nel nostro Pratomagno erano presenti fino all’avvento dei Lorena vasti appezzamenti di bosco e di prato di proprietà demaniale, in genere lontani dai paesi, dove era concesso a tutti far pascolare determinati animali e anche raccogliere legna secca ( diritto di pascolo e di legnatico).
Questo insieme di cose era tale che sia il mezzadro, il bracciante e il montanaro lavoravano generalmente in terreni abbastanza distanti dall’abitazione e, senza nessun orologio, la posizione del sole e il suono delle campane era l’unico segnale che poteva dare una cognizione dell’ora.
La vita quotidiana di tutti i paesi veniva regolata, nel corso dell’anno, dal levare del sole e dal calare delle tenebre. Con la fine della notte e l’arrivo della luce, in montagna come in qualsiasi altro villaggio, riprendevano i rumori, la gente si dirigeva verso i campi, suonavano le campane delle chiese; ed è proprio sul suono delle campane che i contadini e i montanari aprivano e chiudevano poi la giornata lavorativa.
Il suono delle campane aveva diversi significati, in genere doveva arrivare su tutto il territorio parrocchiale in quanto era considerato come una sorta di protezione. E’ per questo che si costruivano campanili svettanti e alcune chiese erano costruite in posizione dominante; in effetti il suono delle campane rappresentava la voce del popolo in quanto aveva un proprio linguaggio e segnava il tempo della comunità.
Nei paesi della nostra montagna, fino alla fine del secolo XIX, sul fare del giorno subito dopo l’alba, suonava una campana al mattino chiamata “campana mattutina”. In effetti questa campana dava la sveglia e ricordava ai montanari di recitare l’Angelus Domini che è una preghiera mariana per eccellenza nata nel 1269. Alla fine della giornata lavorativa , una campana squillava a lungo tre volte a distanza di un’ora ogni suonata e questa usanza è continuata nella nostra montagna fin poco dopo la Grande Guerra. L’orario al quale suonava la campana era variabile secondo l’avanzare delle stagioni. Un’ ora prima del tramonto il suono della campana era chiamato Ave Maria delle ventitré e indicava di lasciare il lavoro e mettersi in cammino verso casa in quanto il sole cominciava a calare. Ricordo bene quando ero ragazzo che spesso le persone molto anziane mentre guardavano il sole declinare a fine giornata sussurravano questo proverbio : “Per l’Ave Maria, o a casa o per la via”. È interessante il termine “delle ventitré” in quanto nella terminologia di montagna in uso fino a qualche decennio fa “essere alle ventitrè“ o anche “arrivare alle ventitré” significava essere arrivato quasi alla fine di un lavoro o della vita; nel caso specifico il suono della campana indicava che la fine della giornata era prossima. A questo suono di campana era legata anche una regola religiosa, in quanto si doveva recitare una preghiera per i malati e i moribondi del paese.
Il secondo suono della campana era chiamato “ Ave Maria delle Ventiquattro” e indicando l’inizio della oscurità segnava la fine ufficiale del giorno. Questo suono era riservato a coloro che ancora si trovavano in cammino perché si affrettassero verso casa ed era legata una pratica religiosa che esortava i fedeli alla recita della preghiera “Angelus Domini” . L’Angelus di Jean-Francois Millet
Il terzo suono della campana era detto “Ave Maria di un’ora di notte” o semplificato in “ l’ un’ora “ e indicava che era già trascorsa un’ora della notte, per cui era pericoloso trovarsi in cammino. Al suono dell’”Ave Maria di un’ora di notte” si doveva recitare il Requiem Aeternam, per cui questo suono era chiamata anche “Ave Maria dei morti”.
Il suono delle campane inoltre serviva e ancora serve per chiamare i fedeli alla Messa indicando loro quanto mancava all’inizio della celebrazione. Un’ora prima dell’inizio della funzione religiosa venivano suonate due campane, suono chiamato “ Doppio”, mezz’ora dopo veniva suonata una campana e questo suono era chiamato “Ave Maria”, dopo un quarto d’ora la stessa campana suonava di nuovo e questo suono era chiamato “Cenno”, qualche minuto prima dell’inizio della celebrazione religiosa suonava ancora la stessa campana e quando smetteva si intrometteva una campana più piccola, detta anche campanino, chiamato “Ultimo” durante il quale i fedeli devevano già trovarsi in chiesa. Questa consuetudine, vecchia di secoli, viene ancora oggi osservata solo dove le campane sono mosse dall’energia elettrica e magari anche da un apposito programma automatico.
Nei giorni delle feste pasquali, quando le campane non si possono suonare e la gente le chiama “legate” (il parroco il Venerdì Santo era solito legare insieme tutte le funi in modo da non poterle usare), il suono delle campane era sostituito dal rumore assordante di un antichissimo ingegnoso marchingegno di legno chiamato “Raganella” dove, girando un manico, si azionava una ruota dentata che emetteva un rumore infernale. La raganella, in uso nei paesi del Pratomagno, era inserita in una cassa che veniva portata a spalla con dei lacci sia per le vie del paese che fuori da un ragazzo, accompagnato da altri due o tre che, insieme, al rumore dell’attrezzo, urlavano molto forte che quello era il Doppio, o l’Ave Maria ecc….. La “Raganella “ del mio paese, Persignano-Malva, che io ho azionato tanto da piccolo e che tutt’ora viene qualche volta usata, porta una data incisa nel legno che è 1861.
Fra le altre funzioni delle campane c’era il” suono a martello” che non proviene da una pratica religiosa ma civile. Il suono a martello accadeva quando c’era pericolo imminente dovuto a calamità come un incendio, crollo, smottamento….. e quindi era una esortazione agli uomini validi di lasciare il lavoro dei campi o le case e raggiungere velocemente la piazza del paese. Il suono a martello aveva una durata lunghissima e in effetti finiva solo a risultato raggiunto. Questo modo di dire deriva dal fatto che la campana doveva emettere rintocchi rapidi e secchi a brevi intervalli regolari di tempo, come fa il martello del fabbro sull’incudine. In certi campanili non era facile suonare la campana a martello usando la fune e allora il parroco o il campanaro si portavano in alto sul campanile, nella nicchia delle campane e azionavano il batacchio a mano.
Fra gli altri suoni ancora c’era il “suono a malacqua” che era in uso fino a qualche decennio fa, quando ogni paese montano aveva il proprio sacerdote. Durante un forte temporale veniva suonata in continuazione una campana per allontanare la tempesta e i fulmini. La caduta di un fulmine, oltre alle vittime, poteva provocare un incendio ai pagliai dove le saette, causa la lunghezza dello stollo (il palo lunghissimo intorno al quale veniva costruito il pagliaio), cadevano preferibilmente. Avere un pagliaio bruciato dal fulmine, oltre al gran danno, era considerato quasi come una “maledizione”, ed è per questo che la vetta dello stollo terminava spesso a croce. Durante un forte temporale mentre la campana suonava, nelle case si accendeva la ”candela benedetta della candelora” e si bruciavano alcune foglie secche di ulivo benedetto recitando la preghiera a Santa Barbara. Questa pratica è talmente radicata nella nostra montagna che in parte viene ancora osservata, fra l’altro nei tempi passati un religioso romano dedito allo studio della meteorologia aveva elaborato una tesi scientifica su come il suono delle campane possa allontanare le nubi temporalesche. Sappiamo dalla voce popolare che il “suono a malacqua” è stato causa di “conflitti di campanile” anche nella nostra montagna, in quanto si riteneva che il suono della campana di un paese più alto e soprattutto il suono di una campana più potente , spostasse le nubi temporalesche sopra ai paesi più bassi o in quelli dove la campana emetteva un suono più debole.
Per quanto riguarda il suono indicante “mezzogiorno” sappiamo che questa era una pratica risalente al Medioevo ma non osservata da tutti e serviva , oltre alla pausa nel lavoro dei campi, a far recitare ai contadini l’Angelus Domini per ringraziare il Signore e la cui recita tre volte al giorno (mattina, mezzogiorno e sera) aveva lo scopo di far dire a tutti la preghiera allo stesso ritmo in cui , ancora oggi, la recitano i monaci nei conventi e nelle abbazie. L’uso della campana a mezzo del giorno fu poi voluto da Papa Callisto III nel 1456 in ringraziamento della vittoria dell’armata cristiana sui turchi a Belgrado e successivamente fu imposto da papa Pio V nell‘Ottobre 1571 in ringraziamento al Signore per ricordare la vittoria dell’armata navale cristiana su quella turca nelle acque greche di Lepanto.
Oggi nella nostra montagna l’uso delle campane è limitato, ma una usanza vecchia di secoli e profondamente sentita da tutti non può decadere così facilmente nell’oblio, tanto che quando le campane dei nostri campanili suonano a distesa per annunciare una festa o una importante celebrazione religiosa, il paese cambia aspetto e torna a vivere perché il suono delle campane è vita e un tutt’uno con la storia della comunità e dei suoi abitanti.
Foto e testo di Vannetto Vannini
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