La mezzadria era un istituzione antica che traeva le sue origini dai rapporti feudali del Medioevo e che si è protratta anche nella nostra zona e in alcune regioni italiane fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, due leggi di Stato misero fine a questo antico sistema di conduzione poderile che non era soltanto un contratto agrario ma un rapporto sociale molto complesso, la legge N° 756 del 1964 che disincentivava la stipulazione di questi contratti vietandone poi la costituzione di nuovi a partire dal Settembre 1974 pur riconoscendo quelli già esistenti e la legge N° 203 del 1982 che imponeva la fine dei contratti a mezzadria o mezzeria con la loro riconversione in contratti di affitto. In alcune zone d’Italia, a causa di certe deroghe, la mezzadria è continuata poi fino ai primi anni’90 del secolo scorso.
Sembra che la mezzadria abbia avuto un grosso sviluppo intorno al 1270 per l’intuizione di San Albertino, Priore della Abbazia camaldolese di Fonte Avellana alle falde del monte Catria, il quale ritenne cosa doverosa dar valore al lavoro e alla fatica delle classi più umili (servi della gleba), rendendo più equo il rapporto che legava il lavoratore al possidente della terra in cui viveva con la famiglia.
Quando fu emanata, dopo lunghe discussioni in parlamento e in Senato la legge di stato che pose fine alla mezzadria, sembrò veramente che l’Italia si fosse tolta un peso enorme retaggio del Medioevo e tutti ci sentimmo più leggeri e moderni consapevoli di aver finalmente tolto di mezzo una antica usanza medievale e abbastanza vessatoria nei confronti del colono. Oggi parlare di mezzadria significa spesso ricordare sudore, miseria e fatica, però dobbiamo riconoscere da persone obbiettive che una divisione certa del raccolto fu una conquista nel Medioevo perché segnò la fine, allora, del rapporto di sudditanza fra il signore proprietario e il servo della gleba e soprattutto con il contratto mezzadrile che prevedeva obblighi e doveri sia per il proprietario che per il colono, fu tolto al signore il diritto di vita e di morte sul lavoratore che era in uso nei secoli precedenti.
Un proprietario terriero dava a lavorare il proprio podere ad una famiglia contadina e tutta la produzione del podere era divisa a metà fra proprietario e contadino e pure le spese di gestione erano divise a metà, ma questo tipo di contratto assumeva poi dei contorni diversi da zona a zona secondo usanze e tradizioni ataviche che erano sempre a scapito dell’agricoltore, in quanto a questi il proprietario terriero imponeva poi una serie di obblighi. Questi obblighi, chiamati “ patti” o ” regalie” o “onoranze” erano evidenti residui di omaggi feudali e consistevano durante l’anno di regalare al padrone vari prodotti della stalla, dell’orto e animali da cortile come i famosi “ capponi “ per Natale, ma soprattutto servizi gratuiti quali “fare il bucato” periodicamente alla famiglia del possidente o in fattoria e altri adempimenti abbastanza pesanti che sancivano la perenne subordinazione dei mezzadri nei confronti dell’autorità del proprietario o del di lui rappresentante (fattore). Le “onoranze” erano sempre presenti nei contratti di mezzadria, giustificate spesso come corrispettivo da dare al proprietario per avere il permesso di allevare una certa quantità di pollame o di suini sul fondo per uso domestico; nella zona di Malva era consuetudine dare alla fattoria un prosciutto per ogni maiale macellato a uso e consumo della famiglia mezzadrile . Nell’ immediato secondo dopo guerra, soprattutto in seguito a lotte sociali in cui furono costituiti e riconosciuti anche i “Consigli di fattoria” che erano delle vere e proprie assemblee che riunivano i capoccia e i coloni più giovani, queste regalie divennero col tempo “facoltative” per poi cessare del tutto, ma eravamo già alla fine, al crepuscolo di questo sistema sociale di conduzione poderile. Per legge poi ci fu una diversa ripartizione dei raccolti fra possidente e mezzadro, dal 50% si passò nel 1947 al 53% al mezzadro e al 47 % al proprietario, per poi arrivare nel 1960 al 58% per il contadino e 42% al possidente. Tutti i componenti della famiglia mezzadrile erano totalmente legati al podere e l’ingerenza padronale spesso si occupava anche della vita domestica dei loro coloni, in quanto questi non potevano sposarsi, né dividersi , ne mandare i figli a lavorare fuori dal podere senza il consenso del padrone, questa ingerenza padronale nella vita familiare dei mezzadri era garantita dalla legge 2142 che fu abrogata solo nel 1964. Il conto economico pendente fra il mezzadro e il proprietario era registrato nel “ libretto colonico” chiamato anche libretto dei conti o dei saldi, dove alla fine dell’annata agraria si determinava il debito o il credito del mezzadro (in genere debito) nei confronti della fattoria o del singolo possidente. Questo del conto economico quasi perennemente in “rosso” era una nota dolente per la famiglia mezzadrile e che in genere veniva rimesso in parte dai coloni con le “opre” (giornate lavorative) gratis che i mezzadri, dietro sollecitazione del fattore, eseguivano nella fattoria o nel podere per miglioramenti fondiari come scassi, piantagioni di viti e olivi per possibili futuri incrementi della rendita. Uno dei sistemi migliori che il fattore praticava per diminuire o azzerare il debito del mezzadro, era quello di trattenere per la fattoria la parte competente al colono del guadagno avuto dall’ allevamento dei bachi da seta e della lavorazione del giaggiolo, che erano guadagni sicuri e ripetitivi, va da se poi il fatto che se la famiglia mezzadrile era un po’ scaltra, sia piccole quantità di bozzoli di seta, ma soprattutto discrete quantità di giaggiolo non arrivavano mai in fattoria; però tutto sommato, il podere riusciva bene a supplire ai bisogni della famiglia colonica con il reddito delle coltivazioni integrato dall’allevamento del bestiame grosso e minuto e da quello del baco da seta e poi dal giaggiolo. Il contratto di mezzadria aveva scadenza annuale e si rinnovava tacitamente a meno che non venisse data secondo le modalità stabilite dalla legge la” disdetta” da una delle due parti e il timore della disdetta esponeva i mezzadri alle pressioni dei padroni. Nel film “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi , è famosa l’immagine delle famiglie contadine che hanno avuto la disdetta dal proprietario e nel tempo stabilito dalla legge, lasciano il podere con le proprie povere masserizie raccolte nel carro tirato dai buoi , per trasferirsi in altro luogo. Non era facile per una famiglia contadina che aveva avuto la disdetta (era stata mandata via da podere ), ritrovare un’altra sistemazione, ma questo succedeva soprattutto per le famiglie piccole e poco per le grandi. Nella nostra zona la mezzadria era soprattutto praticata nel fondovalle e nella zona collinare anche in montagna molto sopra la provinciale dei Sette Ponti ; nella zona delle frazioni montane del Pratomagno lorese era preminente la piccola proprietà contadina e il sistema di affitto di appezzamenti di terra, una economia rurale limitata che spesso non permetteva di far fronte ai bisogni della famiglia per l’anno intero e allora occorreva trovare delle integrazioni nel bosco (legna e carbone soprattutto) o emigrare stagionalmente in Maremma o altrove a fare i carbonai o i cioccaioli di erica.
A cavallo fra il secolo XVIII e quello XIX la costruzione nella nostra zona delle case coloniche leopoldine, fu una pietra miliare nella storia della agricoltura e della mezzadria delle nostre zone, perché si venne a creare per necessità la grande famiglia contadina patriarcale, un tipo di famiglia molto numerosa composta in genere da 20 e addirittura anche da 30 persone, ma in zone come le Crete senesi si arrivò anche a 40 , che aveva regole di gestione molto precise che sono arrivate intatte fino a metà del secolo scorso. La casa colonica leopoldina fu creata per poderi molto estesi che necessitavano per la coltivazione intensiva promiscua di tante “braccia” da lavoro, quindi di famiglie mezzadrili molto numerose dove era titolo di merito avere un elevato numero di maschi che era indice di elevata produttività e di un sufficiente rinnovamento futuro, non di rado per aumentare la forza /lavoro venivano “assunti” dei ragazzi molto giovani, detti garzoni, provenienti da famiglie povere che volevano avere una bocca in meno da sfamare e soprattutto era uso comune adottare dei giovani privi di genitori e presi all’Ospedale degli Innocenti che venivano chiamati “ nocentini” ma soprattutto con il termine “birchi” che oggi ha assunto un significato un po’ dispregiativo. Questa parola che aveva il significato di trovatello, è di etimo incerto, per alcuni studiosi in questo termine non c’è niente di spregiativo perché la fanno derivare dalla parola “birracchio “ proveniente dal latino birrus che indicava un vitellino giovane, va da se poi che al garzone e al birchio toccavano il peggio tipo di lavori, non erano retribuiti, ma lavoravano solo per il vitto e alloggio, alcuni erano trattati malissimo, ma tanti nocentini, perche i garzoni poi tornavano alla loro famiglia, invece si trovarono bene e avevano la stessa considerazione che aveva un componente legittimo familiare anche se non partecipavano alla divisione delle quote di guadagno. Queste case coloniche erano composte da diverse stanze abitative e di servizio e oltre al grande locale della cucina che era il fulcro centrale della abitazione, vi erano non meno di cinque camere da letto dove in alcune di esse il numero dei letti era elevato, tipo “camerata” di caserma . A metà del secolo XIX, quando l’architettura delle case leopoldine andò in disuso, nella nostra collina ma anche in montagna, soprattutto sulle alture che dominano la strada dei Sette Ponti furono costruite quelle belle case quadrate (vedere foto), compatte senza torretta centrale che ancora oggi si trovano molto ben restaurate e che sono l’unione fra l’epoca lorenese e la fine del secolo XIX per quanto riguarda l’architettura rurale della parte bassa della nostra montagna e del Valdarno in genere.
Quindi l’unità lavorativa base della mezzadria era la famiglia e nei grandi poderi con case coloniche leopoldine era la grande famiglia, anche patriarcale in cui convivevano tante persone di tutte le età fino a quattro generazioni, quindi non solamente un gruppo di parenti ma una vera e propria famiglia composta da tanti nuclei familiari diversi, come i fratelli che convivevano con le mogli e i figli nella stessa casa colonica e tutti insieme lavoravano, secondo le proprie mansioni, lo stesso podere collaborando all’adempimento di tutte le funzioni produttive. In effetti non è poi sbagliato considerare la grande famiglia colonica patriarcale, organizzata e funzionante come una vera e propria società in quanto se i vari membri costituenti la famiglia , in armonia e in perfetto accordo tra loro vivevano e lavoravano in comune utilizzando insieme gli utili derivanti dai raccolti, sostenevano di tasca propria gli eventuali scapiti (debiti) e le eventuali spese, lasciandosi dirigere e rappresentare verso terzi e verso il proprietario del fondo dal loro “capoccia” , non possiamo non pensare questo tipo di famiglia rimasta da noi fino a quarant’anni fa, di essere simile a una forma di società.
Questo tipo di famiglia era guidata e amministrata da un capo detto “capoccia”. Il capoccia era eletto da tutto il consesso familiare e in genere era la persona più sveglia, più istruita, più scaltra e più portata per le pubbliche relazioni, possibilmente doveva avere una certa età e essere scapolo, perché se ammogliato e con prole era per lui più difficile essere imparziale con la propria moglie e figli e c’era così il pericolo che “facesse borsello” o “facesse ai sua”, due modi di dire a Malva, mio paese, per far capire che si poteva approfittare della situazione a proprio beneficio. Il capoccia teneva i contatti con il fattore e aveva tutto in consegna, dai soldi alle derrate alimentari e pensava a tutto, non solo nei riguardi della disposizione ed esecuzione dei lavori, ma per gli acquisti utili e necessari per l’intera famiglia. Provvedeva gli indumenti di uso personale dei singoli familiari, contrattava le vendite dei generi eccedenti il fabbisogno, curava le divisioni dei raccolti con la fattoria o con gli eventuali proprietari del fondo lavorato, nonché a tutte le altre necessità e di interesse della famiglia stessa, insomma il capoccia era la persona che faceva “gli interessi di famiglia “ di cui era il legale rappresentante. Quando il capoccia, per età o per altro motivo non poteva più portare avanti il suo lavoro, questo incarico era trasferito ad altra persona.
Oltre al capoccia, altro personaggio di spicco della famiglia patriarcale contadina era la “ massaia.”, il termine massaia deriva da masseria che è ancora un insieme di terreni agricoli. Le funzioni di massaia spettavano di diritto alla donna maritata più anziana, non di età, ma per il maggior tempo che faceva parte della famiglia, doveva essere una persona di buona salute,pulita, scaltra, furba e onesta. La massaia sovraintendeva alla preparazione del vitto per tutti e a tutte le altre faccende domestiche ed era l’unica persona oltre al capoccia che aveva le chiavi del granaio, che spesso fungeva anche da orciaia. Curava l’andamento della casa stessa secondo le disponibilità e possibilità che dal capoccia erano messe a sua disposizione. Curava inoltre l’allevamento domestico di polli , galline conigli e altri animali da cortile in relazione all’entità del podere e in linea alle disposizioni stabilite dal capitolato colonico approvato sia dal capoccia che dal fattore. Nell’allevamento del pollame, piccioni e conigli, la massaia aveva sovranità indiscussa e non era tenuta a rendere conto degli utili conseguiti neppure al capoccia, perché i soldi ricevuti vendendo uova, polli, conigli, piccioni…pelli di conigli, piume di oca servivano per comprare il sale e il pepe per gli ordinari condimenti, il cotone per tessere,il filo e gli aghi per cucire e rammendare, il sapone per fare il bucato e altre piccole cose. Solo in casi eccezionali in cui il pollaio o i conigli non avevano reso, la massaia ricorreva per dette spese alla cassa del capoccia. Il sale e il pepe per la preparazione della conserva all’epoca della raccolta del pomodoro e quelli per la salatura della carne quando veniva sistemato il maiale, erano sempre acquistati dal capoccia. La massaia curava inoltre il guardaroba comune e d’accordo e con l’aiuto finanziario del capoccia, provvedeva alla sostituzione e al rinnovo degli oggetti logori o fuori uso, nonché al loro aumento in relazione ai bisogni accresciuti della famiglia. Nella grande famiglia contadina costituita da nuclei famigliari diversi, la massaia non poteva mai essere la moglie del capoccia, se questi era sposato.
Altro elemento indispensabile nella famiglia patriarcale contadina era il “bifolco” al quale era affidata la stalla avendo una particolare inclinazione e passione alla cura del bestiame. Questo era un incarico delicato, incarico che poteva in ogni momento essere revocato sia dal capoccia che dal fattore . Il termine “bifolco” deriva dal latino volgare “bufulcu” che a sua volta deriva dalla parola latina bos – bovis (bove) e infatti il bifolco era” l’uomo dei bovi”. Il bifolco provvedeva alla confezione e somministrazione dei mangimi agli animali, faceva il segato per le bestie, eseguiva tutti i lavori del podere e fuori di questo nei quali era richiesta l’opera del bestiame, curava la concimaia, teneva in ordine i foraggi secchi, gli strami, la paglia, curava la pulizia dell’aia e dintorni, l’ordine e la pulizia della stalla e della stanza addetta alla preparazione dei mangimi e del segato, nel tempo rimastogli libero da queste occupazioni, partecipava con gli altri componenti la famiglia agli ordinari lavori del podere. Il bifolco interveniva alle fiere o ai mercati quando la famiglia intendeva acquistare , consenziente il fattore, nuovo bestiame, però non aveva alcun potere per la determinazione del prezzo d’acquisto e la conclusione del contratto di compra vendita che competeva al capoccia o al fattore, ma solo per la scelta dei capi di suo gradimento poiché sarà poi lui che dovrà custodirli. Nelle famiglie numerose e con molte bestie nella stalla, il bifolco si avvaleva dell’aiuto di uno o due giovani della famiglia, ai quali insegnava il “mestiere”.
Alla fine dell’anno, il capoccia faceva i conti con il fattore e metteva al corrente la famiglia, gli eventuali debiti che il capoccia era stato costretto a contrarre con la fattoria, risultanti sul libretto colonico, erano a carico di ogni membro della famiglia in relazione alla propria quota. Eventuali crediti erano invece ripartiti fra i membri della famiglia con lo stesso criterio con cui venivano ripartiti gli utili avuti dalla vendita di olio, vino, grano, frutta e altri prodotti. Nella ripartizione degli utili che la famiglia aveva avuto per la vendita di prodotti, il sistema adottato variava in certi particolari soprattutto per i vecchi e i ragazzi da zona a zona, però per gli uomini e le donne era comune per tutti. Gli uomini superato il 18° anno di età ricevevano una quota, le donne la metà della quota dovuta agli uomini, per i ragazzi dai 12 ai 15 anni la stessa quota delle donne, per quelli con età compresa dai 15 a 18 anni veniva assegnata una quota pari ai due terzi di coloro che la percepivano intera. In certe famiglie che avevano un gran numero di pecore e maiali, qualcosa veniva dato anche ai ragazzi di età compresa fra gli otto e i dodici anni, perché erano loro che soprattutto accudivano giornalmente tali animali. Le persone anziane non più in età lavorativa, erano dediti all’orto e secondo le usanze della famiglia, potevano avere o no piccolissime parti di quote soprattutto se l’annata era stata buona, comunque vivevano a pieno titolo in famiglia, erano dalla stessa famiglia accuditi, “vestiti e rivestiti”, erano molto rispettati da tutti e quando un membro della famiglia, anche un figlio, si rivolgeva a loro, si rivolgeva dandogli del “voi”, che era un segno di grande rispetto.
Data la complessità dell’oggetto trattato è impossibile mettere in tre pagine a fuoco tutto per far capire bene il problema e l’ organizzazione, che era alla base della convivenza e dello sviluppo della grande famiglia contadina che viveva nelle case leopoldine o simili; mi interessa far conoscere però alcune caratteristiche e usanze.
Il capoccia, quasi sempre scapolo ma anche se sposato aveva la camera vicino alla scala che dal primo piano portava al piano terra, questo perché di notte poteva controllare bene i familiari che rientravano dalla veglia o da altri divertimenti, ma soprattutto interessava l’ora alla quale di notte si rientrava a casa. Inoltre la camera del capoccia era l’unica stanza, insieme al granaio/orciaia che giorno e notte restava chiusa a chiave in quanto il capoccia teneva in camera soldi e documenti importanti della famiglia, le altre stanze, camere comprese avevano un sistema di chiusura a paletto che poteva essere aperto anche dall’esterno. All’inizio dell’era delle case leopoldine era chiusa a chiave anche la piccionaia, in quanto i piccioni torraioli catturati erano ritenuti proprietà della fattoria e non del mezzadro, questo fu motivo di grossi contrasti e col passare del tempo le piccionaie furono tolte dall’architettura rurale di questo tipo di case. I rondoni catturati tramite appositi fori nelle pareti della casa erano invece competenza dei mezzadri.
Nella amministrazione di questo tipo di famiglia, nulla era lasciato al caso e tutto legiferato, come quando un giovane partiva per il servizio militare o era richiamato alle armi. Nel tal caso, se il giovane militare sarebbe poi tornato a vivere e lavorare in famiglia dopo la fine del periodo di leva, questo pur essendo lontano e non avendo preso parte ai lavori del podere, partecipava a pieno titolo agli utili e ai debiti ( nella zona di Malva erano chiamati “scapiti”) fatti durante la sua lontananza. Il denaro che il soldato riceveva periodicamente dalla famiglia, era considerato fra le spese normali a carico della stessa famiglia .
Tutta questa organizzazione rurale ma anche sociale e economica venne meno con il grande esodo dalla agricoltura negli anni ’50 del secolo scorso, esodo che ebbe un rilievo particolare per l’entità degli effetti che derivarono tanto sulla agricoltura quanto sulla generale struttura economica e sociale del paese e che abbassò sensibilmente il numero di abitanti nella campagna e nella montagna. L’esodo raggiunse nel corso degli anni ’50 del secondo dopoguerra una intensità storicamente mai conosciuta in precedenza, dal 1951 al 1961 il numero degli addetti all’agricoltura passò da 8 milioni a 5 milioni e continuò a calare molto anche nei successivi anni ’60 e ’70. Nonostante l’abbandono dei poderi la produzione agricola nazionale dal 1951 al 1961 ebbe un incremento notevole, perché l’esodo aveva smosso nel campo agricolo una situazione di immobilità con regole di lavoro e di gestione vecchie stantie che duravano da qualche secolo. Soprattutto, con lo smembramento delle grandi famiglie contadine, anche patriarcali, in tante altre famiglie più piccole si pose fine al sovraccarico demografico che si era accumulato nell’agricoltura e vennero favorite combinazioni agricole produttive più efficienti soprattutto con la meccanizzazione.
Oggi le grandi famiglie contadine di una volta che abitavano le nostre colline e la nostra montagna e che erano a tutti gli effetti tante comunità, con i lori pregi e difetti sono rimaste nella memoria di chi ha vissuto quell’epoca, un epoca piena di regole, lavoro, sacrifici, miseria e contraddizioni, ma anche piena tante volte di molta umanità , solidarietà e rispetto, tutte caratteristiche importanti e fondamentali per un tipo di società rurale che ha caratterizzato per lungo tempo un epoca e un territorio e che una volta sparito, non ha lasciato ne vuoti ne nostalgia.
Nb. Le foto dell’autore del testo sono quelle delle case rurali, le altre sono di repertorio.
Testo di Vannetto Vannini