LUCIA LA PAZZA

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Dicembre 1967, una vita fa, frequentavo la prima elementare e scrissi la mia prima letterina di Natale i cui quattro angoli sbucavano con molta nonchalance da sotto al piatto di mio padre che, impegnato in una meticolosa scarpetta nel sugo di capitone, fingeva maldestramente di non vedere e quando, porgendo il piatto a mia madre ormai ripulito e lustro, la vide in tutto il suo sfavillio natalizio, abbozzò una buffa espressione di sorpresa. Quel filo di inchiostro che si componeva ancora tremolante ed incerto in arzigogoli a lui incomprensibili mi avrebbe permesso di tessere una vita senz’altro migliore di quella che era toccata a lui e questa speranza lo rendeva felice. Cercai di leggergli la letterina così come ci aveva insegnato la maestra, “con espressione e sentimento”, e quando ebbi finito, come parlando a se stesso, com’era solito fare, disse: “I figli devono sempre andare più avanti dei loro genitori sennò mo’ staremmo ancora nelle caverne. E tu” – disse rivolto a mia madre – “altro che capitone! A Natale faresti ancora il sugo con la carne dei dinosauri”. Dopo pranzo volle portarmi a casa dei suoi genitori perché la leggessi anche a loro. Arrivati nella piazzetta dove c’era il cinquecentesco palazzo dove c’era la casa dei nonni, mi colpì la solita zaffata di pesce marcio che proveniva dalla carretta del venditore di alghe che le donne compravano per farci le zeppole da mangiare calde e fragranti tra una tombola e l’altra col puzzo di fritto che impregnava cose e persone. Varcando il grande arco del portone cominciava il solito rituale: segno della croce e breve preghiera davanti all’edicola dove una Madonna, attorniata da angeli e santi, era sempre illuminata dalla tremula luce di ceri e candele e poi, salendo l’ampia scalinata di pietra nera e lucida, le ultime raccomandazioni su come ci si comporta in casa di altri. Trovammo i nonni ancora a tavola, nella stanza c’era un’aria stantia e vecchia, in essa ristagnavano rancori mai sopiti che smorzarono l’entusiasmo di mio padre la cui colpa, se l’aver sposato mia madre contro la loro volontà può dirsi colpa, ricadeva su di me e quella nemesi lo feriva. Quando venimmo via era più taciturno del solito e non ne capivo il motivo. Se solo lo avessi saputo gli avrei detto di non farsene un cruccio; la freddezza dei nonni nei miei confronti non mi feriva e non mi mancava il loro amore perché era qualcosa che non avevo mai conosciuto. Era il suo che volevo e che ora sentivo scorrere come linfa dalla sua mano alla mia irrorandomi tutta come una foglia su un ramo. Ma quel Natale del 1967 lo ricordo bene anche per un’altra circostanza che fece fremere la placida mollezza di quei giorni. La signora Lucia era una specie di lavatrice ambulante, vedova e con tre figli piccini si guadagnava da vivere andando a fare il bucato a domicilio. Aveva sempre le mani arrossate e rugose come quelle dei vecchi sebbene non avesse ancora 50 anni. Il viso, indurito anzitempo, aveva un’aria sparuta come da animale braccato. Non rideva mai. Sulla sua porta al posto del campanello c’era una fune che, sbucando da un foro nel legno, azionava una piccola campanella interna che gli scugnizzi si divertivano a tirare per sentirne lo scampanio festoso che si prorogava nella casa. La signora Lucia aveva provato a farli smettere con le buone e con le cattive ma come risultato le scampanellate erano aumentate sicché alla fine, rassegnata, nemmeno apriva più. Le poche persone che andavano a farle visita lo sapevano e la chiamavano dal basso. D’estate i suoi bambini rifiorivano, giocando tutto il giorno in terrazza il sole ne smorzava il pallore malaticcio dei volti ma d’inverno quel pallore tornava ed era, per la signora Lucia, il suo cruccio più grande. Ma quell’anno qualcuno, sull’enfasi di una bontà tutta natalizia, si ricordò di lei e dei suoi figli. Furono raccolte cibarie e indumenti e la sera della vigilia presero a scampanellare alla sua porta senza che questa si aprisse. Allora qualcuno scese e la chiamò dal basso: “Signora Lucia, apra! Siamo venuti a farle visita!”. E la signora Lucia, con le mani rosse, screpolate e ruvide come carta vetrata, aprì. Tanto ben di dio tutto in una volta la frastornò. Pasta, pane, olio, latte, uova, persino biscotti le illuminarono il viso. Cappelli, sciarpine, guanti e tanti altri caldi indumenti invernali che avrebbero protetto dal freddo le sue creature le scaldarono il cuore. Le si leggeva in faccia una felicità acerba e pudica della quale quasi si vergognava. Poi, come destatasi da un bel sogno, i lineamenti del volto tornarono ad indurirsi. Quelle persone, inebriate dalla loro stessa bontà, le porgevano oro, incenso e mirra come in un presepio senza gioia. La leggerezza dei loro cuori, sversati in quegli scatoloni ricolmi di roba i gravami delle loro coscienze, ebbe l’effetto di uno schiaffo sul viso indurito di lei. Con un filo di voce disse soltanto: “E voi credete che i miei figli mangiano solo a Natale?”. Dopodiché chiuse la porta ma lentamente, come fosse di bronzo pesante e grande, troppo grande, fosse la fatica e lo sforzo. In breve la notizia fu sulla bocca di tutti e la gente si divise in colpevolisti e innocentisti. La signora Lucia era diventata “l’ingrata” e si sprecavano i detti proverbiali: “a lavare la testa all’asino si perde il sapone”. Ma c’era anche chi colse in lei il rigurgito di una grande dignità. Io ero troppo piccola per avere una mia opinione a riguardo ma sentivo per quella donna che non rideva mai una grande pena. Immaginavo però anche la delusione di quelle persone alle quali aveva chiuso, lentamente, la porta in faccia e provavo pena anche per loro. Tuttavia cominciavo a chiedermi se fosse giusto essere buoni solo a Natale. E poi perché proprio a Natale? E perché lavare la testa all’asino quando sarebbe bastato dargli un po’ di paglia in più? E mentre cercavo tutte queste risposte prendeva corpo la tesi che la signora Lucia fosse pazza perché solo un pazza, nelle sue condizioni, può rifiutare un aiuto così generoso. Sicché quando si giocava a tombola e usciva il 22, il pazzo appunto, qualcuno prese a chiamarlo col nome di quella cabala estemporanea: “E’ uscita la signora Lucia!” oppure “Aspetto la signora Lucia per fare cinquina!”. E mentre i fagioli coprivano piano piano i numeri delle cartelle e la tombola continuava, nella mia mente si affacciava una certezza: i pazzi ridono sempre, talvolta anche in modo molto sguaiato, lo dicevano tutti. Allora no, la signora Lucia non era pazza. Lei non rideva mai.
Pina Daniele Di Costanzo

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