Testo e foto di Vannetto Vannini
Ancora oggi, nella parlata locale della gente che abita nei pressi della Setteponti e nella montagna soprastante, il termine “zinganetta “è ancora vivo perché usato come termine di paragone. Per indicare una circostanza peculiare che si è venuta a creare nella vita di una persona o di una famiglia si dice “questa è una zinganetta che non finisce mai” oppure “è una bella zinganetta”. Come spiega Carlo Lappucci a pagina 462 del suo libro “Dizionario dei modi di vivere del passato. Come si poteva essere felici senza televisione e computer (Ponte Alle Grazie 1996), la zinganetta è una rappresentazione tipicamente toscana che prevedeva parti recitate in rima e versi cantati. Veniva fatto riferimento a situazioni di vita quotidiana della campagna o del paese con protagonisti tipici il contadino, il notaio, il medico, la massaia, la serva, il prete, la perpetua, la guardia, l’amorosa, il furbo e il tonto del paese, ma anche maschere famose come Stenterello e Pulcinella. La rappresentazione era accompagnata con la musica di un organetto o fisarmonica e, se reperibili, anche più strumenti a fiato. Terminata la recita, soprattutto se la zinganetta aveva trama severa ed austera, immancabilmente seguiva la farsa, piccola commedia molto più breve ma a contenuto ironico che aveva il compito di “far ridere”.
Sembra che questo modo di divertirsi, popolare e alla portata di tutti, abbia cominciato a diffondersi nei piccoli paesi di collina nel secolo XVII limitatamente all’ambiente contadino mezzadrile, così con diffusione circoscritta alle sole aree rurali, senza mai interessare direttamente i centri urbani di fondovalle. Anche nei paesi della nostra montagna, pur essendo la zinganetta uno spettacolo molto apprezzato, non ebbe gran diffusione per motivi organizzativi, logistici e soprattutto per la tradizione della veglia nelle famiglie. Originariamente a recitare, accompagnata da un suonatore di organo, era solo una zingara che portava avanti il filo della trama a contenuto comico ma anche galante, religioso, narrativo. Per colpire l’immaginazione popolare, e quindi attirare spettatori, la zingara doveva essere una donna giovane, con una bella voce e che sapeva cantare bene. Nella zona della Setteponti questo tipo di teatro fu chiamato zinganetta, in altre zone del Valdarno fiorentino anche zingarella, zingaresca o zingana (nella Setteponti, gli zingari erano chiamati “zingani”); un altro vocabolo arcaico molto in uso fino al secondo dopoguerra (ma che poi si è perso) e con cui venivano identificati i gitani era il termine “strolaghi”, derivante chiaramente da “astrologo” perché gli zingari leggevano la mano e predicevano il futuro. Con il passare del tempo, la zinganetta diventò una rappresentazione teatrale organizzata da una squadra di soli uomini abitanti nella borgata e dintorni, un gruppo di volenterosi che in determinati periodi dell’anno, a carnevale ma anche d’estate portavano avanti questo tipo di teatro in ogni paese fino alla seconda grande guerra e anche per pochi anni dopo. In genere si facevano due, massimo tre rappresentazioni l’anno, il modo con cui si preparava questo lavoro era detto “mettere su una zinganetta” e il linguaggio era quello del vernacolo popolare contadino. Finita la rappresentazione e prima della farsa, un componente della squadra passava fra il pubblico con in mano un cappello per una colletta in denaro fra i presenti per ripagare le spese.
La zinganetta può essere assimilata al “bruscello”, come si chiama in provincia di Siena una forma di teatro povero itinerante le cui origini si perdono nella notte dei tempi e che aveva come simbolo un arboscello (bruscello) un ramo d’ albero, diverso come specie da squadra a squadra, che serviva a identificare la compagnia teatrale ed era posizionato nel centro dello spazio dove aveva luogo la rappresentazione o recita. Anche nel bruscello originariamente le compagnie erano composte da soli uomini. Famosissimo quello di Monticchiello vicino a Pienza che nel tempo ha dato vita al “Teatro povero di Monticchiello “che ogni estate fa rappresentazioni in piazza, con grande successo di critica e concorso di pubblico.
Preparare bene una zinganetta non era facile perché dietro c’era tutto un lavoro organizzativo per reperire il testo, i costumi e trovare il tempo in comune per fare le prove che duravano alcuni mesi; a capo di tutto vi era un personaggio, spesso il capocomico o l’attore principale che faceva da regista, inoltre spesso era necessaria la figura del suggeritore. Se erano spesi dei soldi per acquistare il testo, noleggiare i costumi, questi venivano rimborsati prelevando dalla somma raccolta nella colletta fra gli spettatori presenti. Se avanzava ancora del denaro, veniva accantonato e sommato a ricavi precedenti o futuri e speso poi per fare una cena. Quando l’oggetto del lavoro teatrale era nuovo, una volta presentato al pubblico diventava una “prima”, per questo il testo veniva ordinato a un autore di talento che si faceva pagare scrivendo la prosa e i versi in rima della trama che aveva una propria metrica. A San Giovanni Valdarno vi erano alcune persone di cultura, in grado di scrivere in prosa e in versi l’argomento richiesto della zinganetta e spesso venivano fuori dei veri capolavori letterali, a queste persone colte si rivolgevano chi organizzava lo spettacolo. Le prove venivano fatte nei posti più impensabili e nascosti, lontano dal paese e dagli occhi indiscreti della gente, perché fino al giorno della presentazione non doveva filtrare all’esterno niente se non il titolo dell’opera. La zinganetta poi rimaneva nel repertorio della squadra paesana ma il testo scritto, successivamente era scambiato con un altro della squadra di una frazione vicina perché fra le compagnie dei paesi c’era rivalità ma abbastanza collaborazione e sintonia. La passione doveva essere tanta in quanto operai ma soprattutto contadini, artigiani, braccianti i quali lavoravano intensamente duramente nei cantieri, nei campi , nelle botteghe di fabbro, calzolaio, falegname, dedicavano le ore della serata o nei pomeriggi di festa a fare le prove in luoghi come stalle delle bestie, androni, grandi cucine e logge della case leopoldine, aie coloniche dove spesso erano nascosti dalla mole dei pagliai e anche nelle radure e negli anfratti delle balze. Dietro a questo teatro povero come pure dietro ai canti in ottava rima si muoveva tutto un mondo che aveva una propria cultura e capacità messe molto bene in luce dal prof Dante Priore (1928/2022) ricercatore di tradizioni, costumi e usanze popolari e autore in materia di diverse pubblicazioni. Il prof. Priore molisano ma terranovese fin da giovane, nei decenni passati girava a fondo i paesi della Setteponti, intervistando e registrando gli anziani del paese che nella gioventù avevano vissuto l’epoca della zinganetta. A questo ricercatore, che a fine anni ’90 del secolo scorso fece una bellissima conferenza al CAI Valdarno Superiore che ebbe a tema le tradizioni popolari della nostra vallata, va il vanto di aver messo per scritto e quindi salvato, i canti e le rime di una tradizione soprattutto orale che sicuramente, con la scomparsa dei protagonisti sarebbe andata persa.
La zinganetta poteva essere aperta a tutto il pubblico, come quelle fatte nelle piazze del paese, o commissionata da una famiglia e quindi fatta in privato nell’aia del colono committente o nella grande cucina del podere. Questo secondo tipo di zinganetta a cui partecipavano solo i parenti, gli amici, la gente del vicinato invitata per l’occasione (e fra i quali c’era spesso il parroco e sempre il guardia della fattoria), era richiesta da una famiglia che voleva festeggiare un evento come una difficile guarigione, la nascita e il matrimonio di un figlio, il ritorno dalla guerra o dalla prigionia di un congiunto. Alla fine della rappresentazione vi era poi la cena organizzata per tutti, attori e pubblico, dove il vino era il migliore della casa insieme al vinsanto, al vermouth fatto in casa. Soprattutto importante perché sostituiva l’attuale spumante era il vino dolce, un particolare tipo di vino oggi dimenticato ma allora molto in voga e riservato alle grandi occasioni, un vino che non tutti riuscivano a fare bene perché si doveva bloccare la fermentazione al punto giusto e fare una serie di filtrazioni al mosto per mantenerla. Andato via il parroco, la festa riprendeva dopocena con il ballo al suono dell’organetto o fisarmonica, clarinetto.
Alla fine di ogni guerra del secolo scorso fino al secondo conflitto mondiale, furono intensificate nella Setteponti le zinganette, alcune improvvisate e organizzate in maniera frettolosa, cui seguiva la farsa dove venivano presi di mira, il turco, Cecco Beppe, Gugliemone, il Negus Melenik chiamato dalla gente Melenicche. Era l’occasione per festeggiare i soldati del paese tornati a casa e quelli rientrati dalla prigionia, non mancava mai un ricordo a quei paesani che in guerra avevano perso la vita. Il contenuto della zinganetta, anche quello in chiave farsesca, doveva essere sobrio e irreprensibile dal punto di vista del costume e adatto a tutto il pubblico senza sottintesi. Sul giorno, ora e luogo della rappresentazione erano avvisate anche le autorità civili e militari competenti la zinganetta causava un grande assembramento di persone.
La zinganetta veniva organizzata in tutti i paesi della Setteponti, una via strategica che facendo da cerniera fra il piano e la montagna, riusciva bene a fare da collettore per gli abitanti a monte e a valle della provinciale. Paesi come Montemarciano, Persignano e Piantravigne erano fra i più rinomati per la quantità e qualità delle zinganette, c’era fra le squadre una certa rivalità che però non andava oltre lo spirito di campanile tanto che le compagnie si scambiavano i testi scritti e, all’occorrenza, qualche attore. Questi tre paesi avevano il pregio, di possedere una banda musicale con sede in una grande e bella “Stanza della musica” dove periodicamente venivano fatte le prove anche di pezzi operistici famosi e difficili. In questi locali si poteva fare la zinganetta al riparo dei rigori dell’inverno o d’estate con la pioggia. Inoltre essendoci in paese una filarmonica era facile trovare l’accompagnamento musicale con strumenti come clarinetto, sassofono, trombone insieme all’ immancabile fisarmonica.
Oggi, la banda musicale è rimasta solo a Montemarciano, mentre la stanza della musica c’è ancora a Montemarciano e a Persignano. Quella di Persignano, orgoglio del paese, è la più grande e bella in assoluto, con pregevoli decorazioni pittoriche di fine secolo XIX e dotata di palco per recita e retropalco di servizio per gli attori (nella storia del CAI Valdarno Superiore, in questo locale si ricordano due feste da ballo sezionali).
Oltre che la stanza della musica, nei tre paesi sopracitati le rispettive piazze erano utili per svolgere il teatro, e la piazza di Persignano era ancora la più idonea come grandezza, geometria e soprattutto come acustica, che è un dettaglio importante perché nella zinganetta la recita era “a voce”. Ma il paese di Persignano, o meglio Persignano-Malva aveva un altro punto di vantaggio rispetto a Montemarciano e Piantravigne essendo in una posizione geografica centrale rispetto alla grande mole del monte Cocollo, montagna rimasta abitata fino al 1954 fin quasi sotto la vetta.
Della borgata di Malva (il vero nome è Malvanuova essendo quella vecchia sulla strada della montagna) che dista meno di un km da Persignano, si parlerà in un prossimo post di Terre Alte per un affresco a muro rinascimentale nell’ oratorio/ santuario locale. La borgata è divisa quasi orizzontalmente dal vecchio tracciato della Setteponti in due comuni, una parte è frazione di Loro Ciuffenna, l’altra fa parte di Persignano nel comune di Terranuova Bracciolini. Persignano, nel tratto di Setteponti compreso da Loro Ciuffenna a Castelfranco di Sopra è sempre stato il paese più importante e trafficato, perché frequentato abitualmente dalle famiglie che abitavano la zona di montagna che va da Odina a Querceto e in certe occasioni come la zinganetta anche dalla gente di Caspri e Oliveto e, sotto la linea delle balze gran parte delle Cave e il piano, con comunicazione diretta verso San Giovanni Valdarno passando da Riofi e Santa Maria dove vi erano due grosse fattorie. Non è sbagliato pensare che fra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra la gente che potenzialmente gravitava verso Persignano, soprattutto nelle feste, come numero superava bene il migliaio, un dato che può essere ricavato dal fatto che nelle prime elezioni politiche il seggio di Persignano (N 10) comprendeva più di 500 votanti e quello di Malva / Loro Ciuffenna circa 200. Inoltre a Persignano c’è una delle canoniche più belle e vaste di tutta la via dei Setteponti, una struttura settecentesca formata da tantissimi grandi locali e cantine intorno alla chiesa, che permise al parroco di allora Don Elio Valenti ( Villa a Sesta 1908 – Siena 1977)) durante il passaggio del fronte bellico nell’estate 1944 nascondere e salvare una famiglia di cinque ebrei fiorentini portati a Persignano e raccomandati a Don Elio da Gino Bartolini, persignanese e comandante di Compagnia nella divisione partigiana di Potente.
Allo stesso Don Elio, che i persignanesi chiamavano con rispetto “l’arciprete” perché veniva da un’arcipretura e conosceva abbastanza bene la lingua tedesca essendo stato da giovane cappellano militare a San Candido (Innichen) presso il Btg Bassano del 6° Reggimento Alpini, si deve la liberazione e quindi la salvezza di 18 ostaggi persignanesi che i tedeschi avevano preso e rinchiuso a Poggitazzi , dopo uno scontro armato con i partigiani della brigata Mameli nei pressi della fattoria in cui erano caduti due soldati germanici. Tutto questo è riportato in una lapide bronzea murata su una parete vicino alla piazza messa da un professore in pensione della facoltà di Economia dell’Università di Firenze tutt’ora vivente (2023) e che da ragazzo aveva vissuto quei momenti drammatici, perché di questo fatto ne fosse conservata la memoria in ricordo di quel grande umile prete di campagna che aveva retto la parrocchia di Persignano dal 1939 al 1946, nel periodo più difficile della storia paesana. Da tenere presente poi che a Persignano c è stato dall’inizio del secolo XX fino all’estate 1963 un convento di suore (Suore Mantellate Serve di Maria della Santa Giuliana) abitato da alcune religiose anche nel passaggio del fronte bellico. Questo convento oltre che come asilo infantile funzionò da convitto nel periodo fra le due grandi guerre e come scuola di ricamo, taglio, cucito e asilo nel secondo dopoguerra. Queste suore, (Suor Vincenzina, Suora Luisa, Suor Carla, Suor Rotilia, Suora Verdiana, Suor Celina, Suor Stefania, Suor Alda) di cui a Persignano serbiamo un bellissimo ricordo anche dopo tanto tempo, oltre che seguire la gioventù, seguivano le persone inferme, quelle sole e le famiglie più disagiate della parrocchia. Nel 1975, alla mia prima ascensione alpinistica al Monviso con gli amici del CAI di Ceva ho potuto salutare in un commovente incontro Suor Luisa e Suor Celina che si trovavano a Saluzzo in un pensionato per suore. Della permanenza delle suore a Persignano rimane il grande edificio una volta adibito a convento, scuole elementari e asilo infantile e oggi convertito in abitazioni civili, al cimitero rimane la cappella privata dove sono inumate molte religiose. A Malva invece dal 1936 al 1981 vi era il convento dei frati Serviti della Santissima Annunziata e il ricordo di noi abitanti della zona va a Padre Bernardo, Padre Zenobi e Padre Cagnoni e altri. Il convento dei frati di Malva era situato sopra al paese nel comune di Loro Ciuffenna nella bella villa secentesca chiamata villa Belpoggio, indicata come villa Fiorilli nel libro “50 ville nel Valdarno Superiore. Un patrimonio inatteso” ASKA – CAI 2016. Oggi la villa è una bellissima dimora d’epoca toscana con albergo e chiesetta vincolata dalla Soprintendenza delle Belle Arti. Durante il passaggio del fronte bellico, ricercato dai repubblichini e dai tedeschi trovò rifugio nel convento un noto antifascista cattolico valdarnese con tutta la famiglia.
Questo tratto di strada dei Setteponti è sempre stata una via importante per traffici e commerci dal piano alla montagna e fra gli stessi paesi situati lungo questo asse di comunicazione. A Persignano fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso esistevano il circolo della Società Filarmonica e il circolo Enal, tre botteghe di generi alimentari che fungevano da osteria, ferramenta, edicola e parafarmacia, un fabbro ferraio, un macello, un grande negozio di stoffe, un frantoio, un molino con annessa vendita cereali, un uccellaio, un vetturino con dieci muli che poi diventò autotrasportatore, tre calzolai e un calzolaio/zoccolaio. Gravitava su Persignano anche la Fattoria di Poggitazzi, inoltre dalla fine del secolo XIX fino quasi alla seconda grande guerra esisteva una comandata volontaria di pompieri intitolata al Conte Guglielmo Libri. A Malva esisteva l’ufficio postale che funzionava soprattutto da banca, un negozio di alimentari, un calzolaio, un frantoio, una bottega famosa in tutto il Valdarno con vendita e riparazione biciclette di Mealli Aladino, campione ciclistico al tempo di Binda e Girardengo, un noleggio auto con autista, e nel secondo dopoguerra sempre a Malva sorse il circolo ACLI.
Da questo “spaccato” di attività commerciali e religiose si capisce bene l’importanza economica di Persignano e Malva (Malvanuova) in questa zona che influiva poi anche sulla partecipazione del pubblico quando veniva organizzata in paese la normale zinganetta la sera dell’ultimo lunedì di carnevale alla Stanza della Musica, e in piazza del paese nel mese di agosto per la festa di San Lorenzo. Per lo spettacolo fatto al circolo non vi erano problemi per reperire il palco dove sarebbe avvenuta la recita in quanto già esistente nel locale, per quella di agosto il problema era superato mettendo insieme i due carri agricoli dei contadini abitanti all’interno del paese, carri parcheggiati sempre in piazza fino agli anni ’70 del secolo scorso. I pianali dei due carri agricoli messi in piano senza sponde e adiacenti l’uno all’altro funzionavano così da palco sopraelevato rispetto alla posizione del pubblico.
Già nel tardo pomeriggio la gente di montagna, soprattutto a piedi e quella delle Cave e del piano, a piedi o in bicicletta arrivava nel paese dove tanti erano invitati a cena da parenti ed amici, altri cenavano nelle botteghe di alimentari. Si rinsaldavano amicizie, parentele, si parlava molto di caccia e delle prospettive dell’annata agricola in corso, nasceva spontaneo una specie di mercato fatto di acquisti di scarpe, piccoli attrezzi agricoli, zoccoli, sandali e ciabatte di legno, erano trattate e impegnate grosse partite di legna carbone e giaggiolo, il tutto con una stretta di mano e sulla parola data che era considerata più forte di un contratto scritto. La zinganetta a Persignano era un avvenimento molto atteso e frequentato tanto che a distanza di tempo sono ricordate ancora oggi le tante biciclette parcheggiate all’ingresso del paese e alcuni asini legati ai lecci dell’allora Parco della Rimembranza. È sempre vivo il ricordo nel paese della potenza di un salto in alto sul pianale del carro che fungeva da palco di un commediante in una zinganetta per la festa di San Lorenzo in cui si festeggiava anche il ritorno a casa sani e salvi di alcuni soldati persignanesi della guerra d’Abissinia. Usato come termine di paragone, ebbe come conseguenza la rottura di un’asse del pianale e la caduta rovinosa sopra i tiranti della martinicca dell’attore che si fratturò una gamba. Il commediante urlava di dolore e il pubblico rideva applaudendo soddisfatto credendo che tutta la scena facesse parte del copione.
Poi venne la guerra e i problemi furono ben altri, Persignano, si dotò di alcuni rifugi nelle balze, uno veramente imponente, e nonostante le quotidiane cannonate sulle posizioni tedesche della Setteponti che partivano dalle linee inglesi dei monti del Chianti (e quelle per risposta di controbatteria) non subì danni, mentre a Malva fu minato il ponte, gran parte delle case lungo la provinciale furono distrutte per creare ostacoli all’avanzata degli alleati, e andò a fuoco anche il tetto della chiesa . Un aereo inglese distrusse un’abitazione civile provocando diversi morti fra i quali alcuni bambini, mentre un contadino dopo la fuga dei tedeschi perì recuperando il carro agricolo per lo scoppio di una mina sul ciglio della Setteponti; sotto Persignano vicino a Riofi, un aereo inglese mitragliò un carrozzone di gitani provocando la morte di tutta la famiglia Caprile composta dai genitori trentacinquenni e da cinque bambini in età da uno a sei anni. Un cippo, messo dai rimanenti della famiglia e dalla popolazione sul luogo esatto di quanto accaduto, è ancora curato dalla pietà popolare e sempre pieno di vasi di fiori.
Finito il conflitto la vita pian piano ritornò alla normalità e nell’ estate 1946 fu fatta l’ultima memorabile zinganetta in piazza in onore dei paesani che erano ritornati vivi e sani dai vari fronti bellici e dalla prigionia in Germania, Egitto, America e India.
I tempi cambiavano rapidamente e la compagnia della zinganetta di Persignano, pur rimanendo viva come squadra non fece più nessun spettacolo; nel mondo agricolo/mezzadrile cominciarono le prime crepe e la popolazione nel frattempo si era divisa fra Peppone e Don Camillo. Nonostante queste difficoltà, la zinganetta di Persignano ebbe un’evoluzione poco dopo trasformandosi in “Compagnia filodrammatica” con vita fino ad alcuni anni dopo l’arrivo della televisione, il cui apparecchi, fra grande attesa e curiosità della gente soprattutto di noi ragazzi, fu comprato e collocato per primo al circolo della Filarmonica nel mese di ottobre 1953. La continuazione teatrale della “filodrammatica” ebbe discreto successo e fu possibile oltre che per la bravura degli attori anche per la possibilità di avere a disposizione un gran bel teatro come la sala della Stanza della Musica per fare le prove e poi la rappresentazione al pubblico.
È interessante sapere che in altre zone vicine la tradizione della zinganetta continuò invece a lungo e, come riportato nel libro “La zingana fra l’Arno e la Sieve” di Filippo Marranci edito nel 2013, nel comune di Pontassieve la tradizione della zinganetta, chiamata zingana, continuò fino al 1965.
Con la fine della zinganetta si chiuse definitivamente un aspetto del mondo rurale mezzadrile nel contesto di quella grande fuga in città, che stravolse totalmente il sistema produttivo e sociale della campagna e della montagna. Oggi, di questo aspetto che caratterizzò nei costumi e nella cultura questo piccolo mondo antico rimane solo un ricordo sempre più labile, che noi del CAI, avendo a cuore la storia e la conoscenza del nostro territorio, dobbiamo trasmettere al futuro per conservarne la memoria.
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