Nel territorio compreso fra la provinciale dei Sette Ponti (Antica Cassia/Clodia) e le frazioni montane di Loro Ciuffenna, Castelfranco/Piandiscò e Reggello, fino ad un altezza di circa 900/1000 m. il mese di Maggio è il mese “fiorito” per eccellenza, perché oltre alle normali piante che da sempre crescono in queste terre, abbiamo anche la fioritura del giaggiolo che dagli ultimi decenni del secolo XIX, unitamente ad alcune zone del Chianti, vi viene coltivato più o meno intensamente. Fino agli anni ’50 del secolo scorso è sempre stata una attività marginale in appoggio alla economia rurale delle zone povere, ma essendo una materia prima ineguagliabile nel mondo dei profumi e della cosmetica, dal secondo dopoguerra c’è stata una forte richiesta da parte della profumeria francese, per cui da coltivazione secondaria di supporto è diventata in certe zone dagli anni ’60 del 1900 una delle coltivazioni base. La coltivazione del giaggiolo ha sempre avuto alti e bassi, picchi e discese repentini di prezzo e di produzione dovute al mercato e alla difficile commercializzazione, in quanto i pochi commercianti che compravano il prodotto dai contadini per rivenderlo in Provenza facevano il bello e cattivo tempo speculandoci sopra. Sappiamo che all’inizio del secolo XX la produzione era di circa 5000 q. l’anno ma poi decadde dal 1906 fino all’inizio della Grande Guerra. Nei primi anni dopo la guerra 15-18 la produzione si mantenne invariata intorno ai 2500/3000 q. che è stata anche la produzione di alcuni decenni fa. Il giaggiolo era largamente usato dagli antichi, sappiamo dalla storia che i greci gli attribuivano svariate proprietà terapeutiche e si parla di iris coltivati in Macedonia, Libia e Illiria soprattutto per lenire il mal di denti e combattere la depressione. Nella antica mitologia greca l’Iris era sinonimo di fiducia, sincerità, saggezza,amore e passione e nella civiltà egizia l’Iris era considerato magico e compariva spesso nei dipinti su parete. Il vero uso in medicina e in cosmetica dell’iris si dice sia avvenuto per la prima volta in Germania nel Wurtemberg, mentre in Italia la coltivazione venne portata dai Benedettini nel secolo XVI per motivi terapeutici. Nel 1922 fu tenuta a Parigi dal Convegno dalla Società Nazionale di Orticultura di Francia la 1° Conferenza degli Iris riguardante l’uso di questi in medicina e in profumeria, però pur essendo un tipo americano di questa piantina (Iris Versicolor) entrato nella farmacopea americana, l’uso del rizoma secco di iris come medicamento perse tutta l’importanza, limitandone l’uso alla sola profumeria. Questo tipo di coltura che ha un ciclo triennale e in Toscana viene effettuata solo in alcune zone del Chianti e del Pratomagno valdarnese , fino a circa venti anni fa era intensa ed estesa ed era una voce importantissima nella economia della nostra collina e montagna; per ragioni legate al tipo di coltivazione e alle difficoltà di lavorazione, al mercato, soprattutto alla scomparsa delle generazioni più anziane , alle nuove leggi per la vendita (Partita Iva e iscrizione alla Camera di Commercio) la coltura di questa piantina è diminuita e oggi, pur essendo ancora molto remunerativa, viene coltivata in zona solo dai veri coltivatori diretti che sono rimasti non molti. Da tenere presente che la parte interessata della pianta non è il fiore ma il tubero da cui viene estratta l’essenza per fare i migliori profumi e ciprie. L’iris o giaggiolo appartiene alla famiglia botanica delle Iridacee e conta oltre duecento tipi di specie, a Firenze nei pressi del Piazzale Michelangelo c’è il Giardino dell’Iris, un orto botanico unico in Europa dedicato a questa piantina e costruito nel 1954. Firenze è molto legata al fiore di questa pianta,infatti come simbolo della città nel gonfalone di Firenze si trova non un giglio, ma un iris rosso in campo bianco, rosso in quanto così fu voluto dai Guelfi nel 1266 dopo la riconquista della città per la vittoria a Benevento, mentre prima quando il potere era ai ghibellini in seguito alla battaglia di Monteaperti (1260), l’iris era bianco in campo rosso. La motivazione perché lo stemma di Firenze è rappresentato da un iris , viene spiegata da una antica leggenda popolare che si è sempre tramandata fra i produttori di giaggiolo. Spiega la leggenda che una bella madonna fiorentina, di nome Iride, promise il suo amore a un giovane pittore solo se fosse riuscito a dipingere un fiore così meraviglioso e ben fatto da indurre una farfalla a posarsi sulla tela. L’impresa riuscì talmente bene al punto che il fiore diventò vero e fu chiamato “Iris” e divenne così il simbolo di Firenze. Naturalmente vi sono poi altre leggende legate al nome “Iris” e una di queste vuole che il nome sia legato a Iride, messaggera degli dei, la quale per annunciare la fine di una tempesta, scioglieva la sua sciarpa formando l’arcobaleno con quei colori che si possono trovare poi anche nei fiori delle varie specie della piantina. Durante il Medioevo l’Iris è il simbolo della monarchia francese e oggi in Nord America è il simbolo dello stato del Tennensee e l’emblema della città di New Orleans. In Giappone ancora oggi il giaggiolo è usato per purificare il corpo e proteggere la casa e la famiglia dalle malattie e il fiore d’ iris è regalato al compimento del 25° anniversario di matrimonio come simbolo dell’amore eterno. Un iris giallo su fondo blù è ancora oggi il simbolo della città di Bruxelles. Il nome “giaggiolo” invece deriva sicuramente dal termine “ghiacciolo”, termine con il quale sappiamo che i contadini di una volta chiamavano l’ Iris Fiorentina che produce un fiore color bianco-ghiaccio; da ghiacciolo a giaggiolo per corruzione nel linguaggio popolare il passo è breve. La coltivazione del giaggiolo per avere i rizomi sbucciati ed essiccati rimase a lungo molto, ma molto marginale e per tanto tempo il giaggiolo venne considerata una piantina infestante da estirpare. Da noi l’inizio della vera coltura risale alla fine del Settecento in quanto fu incentivata dai Lorena attraverso l’Accademia dei Georgofili, che avevano capito l’utilità del rizoma in cosmetica. Infatti dai rizomi secchi e poi macinati si ricava una polvere finissima e odorosa che fu per lungo tempo, fino al secondo dopoguerra, la cipria impalpabile e profumata di violetto usata dalle nostre mamme, nonne e bisnonne oltre che per farsi belle anche per profumare la biancheria dopo il bucato. Era consuetudine, soprattutto nei vini un po’ aspri della nostra montagna ma anche nel Chianti, aggiungere da 0,5 a 1,5 gr. di polvere di giaggiolo per quintale di vino , allo scopo sia di conferire al vino un leggero profumo di violetto molto apprezzato da un certo pubblico di consumatori che per neutralizzare il sapore aspro dei vini di montagna, in alternativa alla polvere dispersa nel vino, veniva e ancora viene messo a macerare nel mosto un pezzetto di giaggiolo secco. Fra il popolo era usanza di far masticare pezzi di giaggiolo ai bambini piccoli per assodare le gengive durante la dentizione. La leggenda vuole che questa cipria finissima fosse usata anche da Venere, di certo sappiamo da Plinio il Vecchio che le matrone romane, egizie e greche l ‘ apprezzavano per il candore che donava alla pelle del viso e delle mani e per il persistente, delicato profumo. Inizialmente il giaggiolo veniva coltivato solo lungo le “prode” e nei “sodi”, terreni marginali liberi da qualsiasi semina e lavorato dai contadini all’ombra di una pianta nelle ore calde del solleone “per riposarsi” o la sera dopo cena a veglia, la varietà più coltivata era l’Iris Fiorentina dalle corolle bianche appena sfumate di azzurro, poi questa varietà è stata soppiantata da un’altra specie che è l’Iris Pallida di un tenue color lavanda il cui rizoma è più ricco d’essenza e di più soave, gradito delicato e soprattutto persistente profumo di violetta-mammola. Nella nostra zona è presente sporadicamente anche l’Iris Germanica dai fiori fortemente blù-viola che però da noi non viene coltivata, viene coltivata soprattutto nel veronese ma ha una resa molto inferiore all’Iris Pallida. La svolta importante per la coltivazione è risaputo che avvenne a San Polo in Chianti (comune di Greve) intorno al 1860 e fu dovuta alla caparbietà e alla intraprendenza di due coltivatori del posto , padre e figlio, Adriano e Attilio Piazzesi. Questi vendevano ogni anno la propria piccola produzione di giaggiolo secco all’Antica Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella in Firenze che usava questo prodotto come componente nei saponi profumati, creme per la pelle, ciprie di qualità e pasta dentifricia. Proprio in questa Antica Officina seppero da un signore gli sviluppi che aveva fatto la chimica che permetteva di estrarre dai rizomi secchi un olio essenziale chiamato “Irone”, olio molto richiesto dai produttori di profumi e ciprie di Grasse, in Provenza vicino a Nizza. In pratica nei laboratori chimici francesi era stato scoperto che triturando minutamente i rizomi e facendo una distillazione frazionata in corrente di vapore acqueo si ottiene, passando prima dal “Burro d’Iris, come prodotto un olio essenziale chiamato “Irone”, che oltre ad essere il costituente più odoroso dell’essenza è un ottimo fissatore dei profumi, di cui riduce la volatilità e quindi l’evaporazione mantenendo l’odore di profumo più a lungo. I Piazzesi diventarono oltre che produttori anche commercianti trovando gli sbocchi commerciali necessari per vendere il prodotto in Francia. Si dice che una volta, tornando da Grasse dove avevano fatto un viaggio fruttuoso per la commercializzazione del prodotto, gli abitanti di San Polo in Chianti andarono ad aspettarli a Quarate, portandoli in corteo e in trionfo al paese con la banda musicale in testa. San Polo in Chianti fu il centro di produzione principale del giaggiolo, ma questa coltivazione non si estese, oltre a Lamole, Lucolena e Radda, più di tanto nel territorio chiantigiano mentre si estese a tappeto nel territorio del Monte Cocollo e in quello prossimo e sopra alla strada dei Sette Ponti. La zona collinare di Reggello, Piandiscò, Malva, Piantravigne, Montemarciano, Loro Ciuffenna e Castelfranco di Sopra nelle cui frazioni montane della Lama, Galligiano, Pulicciano e Caspri ha trovato un terreno fertilissimo dando rese in peso superiori ad altri luoghi, è stata ed è ancora il territorio – cuore di questa produzione. La terra nella quale il giaggiolo cresce molto bene è “l’Alberese “ e il “ Galestro” dei poggi o colline i cui terreni però siano molto ben drenati e esposti a solatio. Il giaggiolo ama il sole e preferisce il clima abbastanza caldo mentre nelle terre fresche il rizoma non matura con la compattezza necessaria, rimane molle , pastoso e ribolle fermentando. Il giaggiolo non sopporta l’erba e preferisce concimazioni a base di potassio non eccessive, in genere in terreno buono da un ettaro si ricavano circa 35 q. di prodotto secco, sia sbucciato detto “bianco” che spezzato con la buccia detto “nero”.Da notare che 35 q. secco è una quantità notevole che deriva da circa 100 quintali di giaggiolo verde e che poche famiglie potevano produrre, quantità che tradotta in soldi, negli anni che vanno dal 1980 al 1996, si aggirava intorno ai 100 milioni di lire per il giaggiolo “bianco”, un po’ più della metà per quello “nero”. In genere lavorando dall’inizio di Luglio a fine Settembre (la fiera di Terranuova B. è sempre stata la data di fine stagione) la produzione media di una famiglia si aggirava e si aggira ancora dai 12 ai 15 q. di bianco. Il ciclo produttivo del giaggiolo è triennale o biennale ( in quello biennale però la resa in peso è circa la meta di quello triennale), ma i produttori per avere la stessa quantità annua dividevano la terra coltivabile in quattro parti uguali in cui a turno una riposava e ogni anno lavoravano il giaggiolo al compimento dei tre anni da uno di questi appezzamenti. Il problema della cultura del giaggiolo è sempre stata e in parte è ancora la manualità delle varie fasi di coltivazione , di lavorazione ed essiccamento naturale al sole. La piantina veniva piantata nei sodi dove non era possibile nessuna coltivazione e il terreno era preparato a colpi di zappa e di vanga. All’inizio dell’Autunno, una volta messe a dimora nel terreno a solchi le nuove piante a una distanza di circa 25/30 cm l’una dall’altra, piante ricavate dalle ceppaie estratte per l’appena terminata campagna di produzione, nella successiva primavera veniva tolta l’erba infestante (sarchiatura) dalle file del giaggiolo. Quella della sarchiatura è sempre stata una operazione indispensabile per la salute e crescita del giaggiolo in quanto essendo ancora la piantina debole e minuta, può essere benissimo sopraffatta dall’ erba. La sarchiatura del primo anno è abbastanza facile con la piccola zappa (marretto) perche la piantina non è voluminosa e solo al primo stadio vegetativo di espansione . Con una piccola concimazione a base di prodotti con potassio, sperando poi in una estate calda e secca ma con qualche pioggia rara e intervallata, si arriva al prossimo inverno. Alla primavera dell’anno successivo si ripete la sarchiatura (2°) che questa volta è molto difficoltosa perché la pianta ha radicato fortemente sotto terra con l’emissione di tante foglie che rendono difficile questa operazione. Non potendo usare bene il marretto per l’estirpazione dell’erba, molti contadini preferivano l’estirpazione con le mani nude e in ginocchio sul terreno strappavano l’erba dalla mattina alla sera, un lavoro lungo, ingrato, duro ma necessario. Avveniva poi la successiva concimazione e si arrivava bene alla fine dell’anno. Con la primavera successiva la sarchiatura di inizio primavera non veniva fatta perche la pianta, radicando ulteriormente sottoterra con l’emissione in superficie di tante foglie, in pratica diventava un cespuglio così voluminoso impedendo all’erba di crescere. A metà Giugno si cominciava a pensare mentalmente e psicologicamente alla nuova campagna di produzione che sarebbe iniziata di li a qualche giorno, campagna che investiva tutti i componenti della famiglia, ragazzi, giovani, adulti e anziani . Veniva fatto un “ordine di servizio “ al quale tutti si dovevano attenere scrupolosamente e a fine mese di Giugno iniziava la lavorazione. Dalla terra il giaggiolo veniva “cavato” (estratto) col la “marra a occhio”, un tipo di zappone con il quale, con forza fisica, si entrava profondamente nel terreno sollevando da sotto l’intera pianta. In questa operazione che veniva eseguita la mattina prestissimo, solitamente dalle ore 4 alle ore 7-8, se la terra era di tipo sciolto o “salina” l’operazione era veloce e facilitata, ma se era argillosa o di balza, questo lavoro era lungo e si trasformava in un tormento, una faticaccia enorme perché, oltre alla maggior durezza della terra, ogni ceppaia doveva essere poi ripresa e sbattuta più volte a contrasto sul manico della zappa per eliminare le zolle attaccate. In contemporanea, mentre una persona estraeva la pianta di giaggiolo, un’altra persona lo “spiantava” (questo era spesso il mio lavoro). La fase di “spiantare “ il giaggiolo significava separare i rizomi dalle foglie che venivano tagliate con un coltello a serramanico, in questa fase si facevano le nuove piante per scoscendimento o taglio dalla ceppaia, piante che servivano per la messa a dimora in terra nell’autunno prossimo nel pezzo di terra lasciato per un anno a riposo. Era una operazione poco faticosa ma importante perché nel fare le piante nuove occorreva un po’ di “ occhio” in quanto era facile sacrificare il tubero. Le piante nuove fatte, venivano legate insieme in numero di cento in uno o più mazzi che erano posizionati ciondoloni legati ai rami degli olivi con le foglie verso terra e il bulbo verso il cielo, questo perché in caso di pioggia si facilitava lo scolo dell’acqua impedendone la permanenza all’interno del mazzo e quindi non rendendolo umido, umidità che avrebbe fatto marcire prima le foglie poi il bulbo. Messe in questa posizione sugli olivi o su altri alberi, le piantine si mantenevano sane fino all’ Autunno, quando poi venivano piantate in terra. La quantità di giaggiolo che doveva essere cavato e spiantato era data dalla quantità necessaria alla famiglia per “mondare” (sbucciare) il giorno successivo. Se necessitava una grossa quantità perché vi erano molti lavoranti a “mondare”, la fase di cavatura era eseguita tutte le mattine anche il Sabato e la Domenica. In certi casi il giaggiolo veniva cavato anche a fine pomeriggio, quando il sole stava per tramontare e la temperatura dell’aria lo permetteva. Messi i rizomi nelle balle, queste venivano caricate nei carri agricoli, trattori, macchine (ottime erano la Fiat 500 e 500 Familiare che salivano dappertutto), ma una volta si usavano molto i carretti spinti a mano, i migliori erano quelli (come il mio) che avevano due freni, uno per ruota, chiamati “martinicca”, i quali uniti da un mozzo, nelle discese ripide con il carretto carico venivano in contemporanea e con la stessa intensità azionati a mano tirando una fune , nelle frazioni montane erano molto usati i muli e i somari. Le due persone che avevano “cavato” e “spiantato”, una volta portati i tuberi di giaggiolo a casa lo dovevano “sbarbucciare “, operazione che consisteva di tagliare e quindi ripulire con un coltello a serramanico affilato le fitte radici o barbe che il rizoma aveva. Era un lavoro antipatico e sporco anche se comodo perché seduti, ma alle barbe o radici era attaccata ancora un po’ di terra secca la quale toglieva al coltello in continuazione l’affilatura, affilatura che veniva ripristinata strusciando la lama nella pietra affilatoio. In una mattinata e di buona lena due persone riuscivano a “ sbarbucciare” circa 100 kg di tuberi di giaggiolo che poi erano lavati con una scopa di erica in un recipiente, spesso un bigone di legno usato per la vendemmia. Dopo lavato il giaggiolo veniva trasferito in un altro recipiente di legno, o una conca di terracotta con acqua pulita e vi rimaneva fino al giorno successivo quando veniva prelevato per la mondatura. In contemporanea a questo lavoro di “sbarbucciatura”, il resto della famiglia con ragazzi e anziani (maschi e femmine) iniziava la giornata con la “mondatura” dei tuberi che erano stati sbarbucciati il giorno precedente, operazione che pur stando comodi richiedeva molta pratica e attenzione in quanto veniva e viene usato un minuscolo utensile fatto dal fabbro locale, consistente in un piccolo e corto manico di legno alla cui estremità superiore è infilato un minuscolo, sottile ma resistente e stretto roncolino ( una specie di mezzaluna) di acciaio ma molto tagliente e affilato nella parte concava. L’operazione di mondatura , consisteva e consiste ancora di togliere, con ripetuti colpi di roncolo, la buccia in minuscole e sottili fettine cercando di portare via meno polpa possibile al tubero, in modo da renderlo bianco che è il colore naturale della polpa sbucciata del rizoma. In pratica è la stessa operazione che si fa a sbucciare una patata, però il tubero del giaggiolo non ha una superficie liscia come quella della patata, ma è molto irregolare come geometria perimetrale, bitorzoloso e duro come qualità della polpa. Una persona molto esperta, veloce e soprattutto precisa riusciva a “mondare” in otto ore circa 25 /30 kg di giaggiolo fresco (che tradotto in giaggiolo secco sarebbero dai 10 ai 12 Kg). Se la famiglia del produttore non aveva sufficiente personale per la mondatura, fino agli anni ’90 del secolo scorso si faceva ricorso a persone esterne,che dietro pagamento in base al giaggiolo lavorato giornalmente prestavano la loro opera per l’intera giornata. Ricordo bene che nel 1960 (cinquantotto anni fa !), quando il giaggiolo bianco costava 50.000 lire al quintale , le persone esterne che lo mondavano ricevevano come compenso 30 lire al kg. Durante la mondatura, nel linguaggio popolare e contadino, il pezzo di giaggiolo mondato veniva e viene ancora oggi chiamato “galla o gallozzola” che sta a indicare un qualcosa di leggero, infatti il sostantivo “galla o gallozzola” deriva dalla proprietà del tubero privo della buccia di stare a galla o quanto meno a fior d’acqua, una volta secco poi il giaggiolo galleggia comodamente. La mondatura era necessaria perché in fase di distillazione era più conveniente allora per la fabbrica di profumi avere il rizoma secco e sbucciato (bianco) che quello fatto a fette e seccato con la buccia (nero), nonostante che al produttore quello nero fosse pagato circa la metà di quello bianco. In alternativa alla mondatura c’era proprio la produzione di giaggiolo affettato o spaccato detto “nero “ perché manteneva la corteccia. In genere i produttori di giaggiolo secco preferivano, anche se più laborioso, fare il giaggiolo bianco, ma a fine stagione produttiva erano comprese anche piccole quantità di giaggiolo nero, in quanto la parte vecchia del rizoma e alcune parti cresciute non bene era preferibile spaccarle con la buccia che toglierla, inoltre l’ affettatura del giaggiolo nero era molto veloce (come affettare una patata), nel 1960 il giaggiolo nero costava 28.000 £ al quintale secco. Da parte delle ditte produttrici di profumo, dal 1980 in poi è sempre più aumentata la richiesta di giaggiolo nero a scapito di quello bianco. La “mondatura” del giaggiolo bianco ha sempre avuto nella popolazione, oltre che un piccolo rivolto economico per le casalinghe e le persone anziane (le pensioni sociali furono introdotte nel 1958 con lire 5000 al mese), anche un risvolto “sociale”, in quanto questa lavorazione veniva fatta comodamente in gruppo e in promiscuità. Il luogo ideale era all’aperto sotto l’ombra di un grande albero che in genere era un fico, una quercia o un noce e si lavorava conversando del più e del meno, gli anziani ricordavano i fatti salienti della loro vita, si parlava di sport evitando la politica, si veniva a conoscenza di tutti i fatti del paese anche pettegolezzi, si miglioravano amicizie, si raccontavano barzellette, per i ragazzi e le ragazze del paese era un modo di incontrarsi,conoscersi, di scambiarsi occhiate e messaggi, all’ombra di questi alberi durante la mondatura del giaggiolo sono nati diversi amori soprattutto fra studenti e studentesse nelle vacanze estive. Spesso per passare qualche ora in compagnia venivano persone adulte del vicinato a dare una mano e quando tornavano via, in compenso della loro opera saltuaria, inaspettata ma gradita, avevano in dono dal produttore verdura o frutta. Ma il motivo per cui amici del paese venivano ad aiutare le famiglie produttrici, era soprattutto da ricercare in quella solidarietà disinteressata e bella che allora esisteva in campagna nelle occasioni più importanti della vita contadina, come il portare all’aia le manne di grano, la battitura del grano, la vendemmia dell’uva e la raccolta dell’olive. Nel paese la sera dopo cena d’estate, la mondatura del giaggiolo fatta in piazza e alla luce di un lampione pubblico era un punto importante per scambiare due chiacchiere, fare due risate prima di andare a letto. Una volta mondata, la “galla di giaggiolo” veniva gettata in una conca contenente acqua perfettamente pulita. Si usavano le vecchie conche di terracotta o collaudati recipienti di legno perché nel metallo, se non era acciaio inossidabile, il giaggiolo diventava rosso, inoltre soprattutto nei primi tempi non ci fidavamo dei recipienti di plastica. Le vecchie conche erano e sono ancora il recipiente preferito e che tutte le famiglie avevano a disposizione perche era il grande contenitore dove veniva fatto periodicamente il bucato usando il “ranno”, una soluzione caustica ricavata dalla cenere a contatto con acqua a bollore. A fine giornata e cambiata l’acqua nel contenitore, le galle mondate di giaggiolo rimanevano tutta la notte a bagno nella conca e la mattina successiva erano trasferite in delle stuoie all’aperto e al fitto sole per l’essiccazione. L’essiccazione naturale al sole era la fase più delicata in quanto viene messa in gioco la qualità del prodotto e tutto dipendeva dal tempo meteorologico. Se il tempo era nuvoloso e minacciava pioggia le galle di giaggiolo era preferibile mantenerle nella conca con l’acqua (massimo una settimana), cambiando spesso l’acqua, finchè non vi èra possibilità di esporle al sole. L’essiccamento all’aria durava circa 10 giorni di sole pieno e forte ed era ed è una operazione fondamentale e perciò molto seguita dalla famiglia del produttore. Le stuoie su cui era disteso ma non accumulato il giaggiolo erano dei pali di legno che formavano un rettangolo di 3 x 1,5 m. reggendo una fitta rete metallica (molto usate anche le rete metalliche dei letti), ed erano posizionate in luoghi dove batteva il fitto sole, durante la giornata cambiando la posizione in cielo del sole veniva cambiata anche la posizione delle stuoie. La sera dopo il tramonto era preferibile non lasciare all’aperto, ma trasportare le reti con il giaggiolo in un locale coperto ma molto arieggiato tipo tettoie , oppure coprirle con teli di nailon; quando minacciava di piovere si doveva prendere le stuoie e portarle al sicuro al coperto. Poiché per maneggiare ogni stuoia ci volevano due persone valide, durante la campagna di produzione del giaggiolo dovevano essere sempre presenti in casa, anche la Domenica, minimo due persone valide per questa evenienza. Il giaggiolo era secco quando messo in bocca e pigiando a contrasto i denti, questo era duro come il sasso. La decisione che il giaggiolo fosse secco spettava sempre al produttore in quanto era una decisione importante perchè se nella massa vi era qualche galla che aveva la superficie esterna secca ma dentro era ancora pastosa, questa con il tempo marciva e faceva marcire le galle vicine. Il giaggiolo secco veniva tolto dalla stuoia e portato in un locale con alcune finestre interno all’abitazione, disteso su un pavimento preferibilmente di mattoni e accumulato. Periodicamente con una pala la massa distesa sul pavimento veniva rivoltata cambiando posizione alle galle e controllando così che non vi fossero pezzi marciti. Durante certe estati piovose come il 1972 e 1976, l’essiccazione al sole era problematica e qualche volta, ma controvoglia e molto raramente, qualche produttore (mio babbo) faceva ricorso anche al forno dove veniva cotto il pane e dove il giaggiolo passava massimo una giornata a temperatura molto, ma molto lieve, in quanto l’uso del forno dava sempre risultati non sempre soddisfacenti facendo diventare un po’ rossiccia la superficie esterna della galla. Finita la campagna di produzione, veniva lavorato il pezzetto di terra lasciato riposare per un anno e prelevati dagli olivi, ai cui rami erano attaccati, i mazzi di piante fatte durante l’estate dal giaggiolo cavato dalla terra e lavorato, venivano piantate nei solchi per una nuova coltivazione. Il terreno rimasto libero dal giaggiolo estratto durante l’estate, dopo essere stato ripulito dal fogliame rimasto, veniva lasciato riposare per un anno. Nell’Autunno e nell’Inverno successivo iniziavano le trattative per la vendita del prodotto, trattative che erano molto complesse e difficili perché il monopolio di questa mercatura era nelle mani di solo alcuni commercianti. All’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, causa la rabbia e il risentimento degli agricoltori, con l’aiuto della Camera di Commercio di Arezzo, con la Federazione dei Coltivatori Diretti del Valdarno fu creata la “Toscana Giaggiolo”, una cooperativa di produttori che ancora lavora e ha la sede amministrativa a Montevarchi e il magazzino in un locale adiacente al Frantoio Setteponti dei Coltivatori Diretti nel comune di Castelfranco/Piandiscò. Questa cooperativa, i cui soci provenivano anche da San Polo in Chianti, prese subito il monopolio completo della commercializzazione del giaggiolo, giaggiolo che viene esportato da sempre quasi completamente a Grasse, in Provenza, oltre a un centinaio di quintali venduti in Italia per aromatizzare il vermuth e una piccola quota , della specialità “dentarolo”, che viene esportata in Giappone per fare i succhiotti per i bambini piccoli, così come voleva la tradizione contadina nostrana che usava proprio le galle di giaggiolo per fare indurire le gengive ai bambini.
Cosa rimane oggi nelle nostre colline e montagna del Pratomagno di questa coltura agricola e come è cambiato il sistema di coltivazione e produzione? La coltivazione del giaggiolo esiste sempre ed è nelle nostre zone in leggera ripresa per merito dei giovani agricoltori che hanno formato molte nuove aziende agricole, soprattutto nel territorio del comune di Loro Ciuffenna e Terranuova Bracciolini. Chi percorre in auto la provinciale dei Sette Ponti vedrà diversi appezzamenti coltivati a giaggiolo, come chi percorre a piedi i sentieri a quote non alte della montagna. Non c’è la produzione di prima, produzione che faceva si che ad Agosto in tutti i paesi si vedevano al sole decine di stuoie di giaggiolo a seccare, ma la coltivazione interessa ogni anno un numero sempre più elevato di persone perché il prezzo è molto remunerativo e conviene sempre. D’altra parte il mercato non richiede più le stesse quantità di trent’anni fa, la convenienza a produrre in maggior misura profumi meno di qualità fatti con materiale di fissaggio più scadente, un po’ la concorrenza di paesi come il Marocco e l’Albania che producono giaggiolo a poco prezzo ma non adatto a profumi di valore , l’uso di qualche prodotto di sintesi chimica per profumi molto scadenti ma che il mercato richiede, le nuove leggi fiscali, ma soprattutto i diversi assetti familiari con la scomparsa delle generazioni nate poco prima e poco dopo la Grande Guerra, generazioni che affrontavano questa produzione con uno spirito di sacrificio che veniva da lontano, dai tempi quando in agricoltura tutto era manuale e fatica, ha fatto si che questa coltivazione sia molto diminuita, ma esiste sempre ed è in ripresa con sistemi di coltivazione e produzione un po’ diversi da quelli di alcune decine di anni fa, soprattutto perché oggi il giaggiolo si mette in terreni comodi dove è possibile l’uso in alcune fasi di macchine come trattori o piccoli escavatori,poi betoniere ed affettatrici. Inoltre il mercato richiede sempre più quantità di giaggiolo nero in quanto le innovazioni tecnologiche di distillazione fanno si che si possa distillare bene anche il prodotto con la corteccia, la cui produzione per il coltivatore è molto più rapida ed economica. Oggi, se a Grasse in Francia, si vuole produrre profumi e ciprie di alto valore e pregio, il nostro giaggiolo che è quello del Chianti e del Pratomagno, è ancora una delle materie prime essenziali di base, quell’ Iris Pallida che è entrata da tempo e rimane nella tradizione agricola e nella cultura della nostra Terra e della nostra gente.
Foto e testo di Vannetto Vannini.