Badia Santa Trinita in Alpe: Il patrimonio fondiario – Vita quotidiana nella prima metà del Novecento

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Testo di Rossana Casini

Santa Trinita in Alpe è stato il primo monastero benedettino del Casentino. Fondato in età ottoniana fra il 950 e il 961 divenne un importante struttura religiosa ed economica. Non è possibile avere un quadro completo del patrimonio fondiario dell’Abbazia in età medioevale per mancanza di fonti sufficienti. Dalle pergamene più antiche (secoli XI-XII) emerge con chiarezza la vastità degli interessi patrimoniali lungo le pendici del Pratomagno, tra Valdarno superiore, basso Casentino e Valdambra. Un privilegio di Federico I del 1163 traccia un vasto quadro dei possessi: sono soggetti a Santa Trinita quattro monasteri (San Giorgio a Ganghereto, Sant’Andrea a Loro, San Salvatore a Soffena e San Bartolomeo a Gastra), quattro castelli (Lanciolina, Rondine, Valli e Pontenano) oltre a diritti e possessi su pievi, ospedali e terreni tra Casentino, Valdambra e valico di Gastra. In questo enorme patrimonio spiccano numerosi mulini e un certo coinvolgimento alle zone interessate dalla viabilità, infatti troviamo numerosi possedimenti lungo la Setteponti, i valichi del Pratomagno e gli attraversamenti dell’Arno, sia per Siena (Valdambra) che per Arezzo-Roma (diritti di passaggio in diverse zone, come il pedaggio a Laterina). Il monastero era anche titolare di diversi ospedali. Dalla documentazione esistente si ricava che la gestione veniva esercitata attraverso una sorta di fattore che riscuoteva censi e affitti. Al disopra di questi c’erano dei funzionari (Vicecomes), personaggi importanti appartenenti all’élite della città di Arezzo, che esercitavano mansioni istituzionali e amministrative. Dal XII secolo sembra di capire che gli abati cercano di sostituire i vecchi accordi con contratti moderni e diretti, basati sugli aspetti produttivi. Nel corso del Trecento continuano le concessioni di poderi anche se con canoni adattati alla diversa situazione, condizionata dalla mancanza di braccia a seguito della Peste Nera. Pur di non fare tornare l’incolto l’abate è disposto a cedere terreni e godimenti senza ricavarne praticamente niente. La mancanza di documentazione non permette di capire quale sia il possesso fondiario e l’assenza della rilevazione catastale del 1427, presente solo per il territorio fiorentino, ci obbliga a far riferimento all’inventario redatto dai vari abati alla metà del XV secolo e aggiornato fino alla fine del XVI, che ci permette di vedere una gestione più efficiente e moderna condotta dagli abati vallombrosani, da poco insediati a Santa Trinita in Alpe. Il patrimonio edilizio è esiguo, non ci sono possessi di mulini e purtroppo spesso non compaiono le effettive dimensioni dei poderi ma solo la rendita. Rispetto ai secoli precedenti il patrimonio appare ripiegato su sé stesso, concentrato sulle località più vicine (privo di quelle aperture che aveva sulla Setteponti e nell’alto Casentino) ed estremamente frammentato, con contratti perpetui ed ereditarietà delle concessioni. Questa la situazione alla metà del Quattrocento, quando gli abati vallombrosani cercano di cambiare gradualmente cercando di stipulare contratti non più perpetui ma a termine. L’amministrazione e gestione del patrimonio è ormai passata ai vallombrosani del monastero di Poppi, a Santa Trinita rimane però un’intensa vita monastica fino al XVII secolo, quando, forse a causa della viabilità ormai trasformata e per una carenza di vocazioni, l’abbazia rimane sempre più isolata e inizia l’inarrestabile declino. Alla fine del secolo gli ultimi monaci lasciano Santa Trinita che nel frattempo viene denominata grancia, azienda agricola affidata all’abate di Soffena. Il rapido degrado culmina nell’esproprio napoleonico del 1810 con vendita ai marchesi Corsi di Firenze, cui subentrarono nel 1811 i Cassi di Capraia. Questi costruirono allora, riutilizzando gli abbondanti materiali lapidei rovinati sul posto, una casa colonica, tuttora esistente anche se in precarie condizioni. L’ultima famiglia contadina abbandonò il luogo nel 1953. In quegli anni l’area passò al Demanio Forestale e negli anni ’70 la Regione Toscana lo ha affidato in gestione alla Comunità Montana del Casentino. Un progetto di valorizzazione dell’area, attraverso interventi di miglioramento della viabilità forestale (sia Anciolina-Badia che Fonte Cavallari-Badia) per poi eventualmente procedere al restauro dell’area, si è bloccato nel 2011 con l’estinzione della Comunità Montana a cui è subentrata L’Unione dei Comuni del Casentino.

Vita quotidiana alla Badia Santa Trinita nel Novecento Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale il castagneto intorno alla Badia era per metà ancora di proprietà dei Cassi di Capraia, destinati a non avere eredi poiché nessuno di loro aveva una propria famiglia, erano due fratelli celibi e un terzo divenuto frate. Di loro proprietà anche la casa padronale e la casa colonica. L’altra metà apparteneva ancora ai monaci che l’avevano affidata ad una famiglia di contadini di nome Tassini. In quegli anni mio nonno veniva regolarmente chiamato dai Cassi sia a Capraia che alla Badia Santa Trinita per effettuare lavori da muratore e di manutenzione generale, cosicché aveva preso in affitto il seccatoio e il castagneto intorno all’abbazia, nei pressi della strada proveniente da Pontenano, dove era presente anche una fonte. La zona veniva chiamata “il Selvone”. L’affitto rimase in essere dagli anni ’30 al 1947. I castagni erano soprattutto tigolesi (per la farina) e raggiolani, ma c’era anche qualche marrone. I castagni venivano regolarmente innestati. Si racconta di un castagno enorme che poteva essere abbracciato da ben 5 uomini. Il nonno rimaneva spesso a dormire nel seccatoio (chiamato “La casetta del Cassi”) per periodi di 3-4 giorni insieme ad alcuni giovani aiutanti, per portare avanti la raccolta e l’essiccazione delle castagne. Nel periodo dei funghi questi venivano raccolti in grande quantità e trasportati a valle già essiccati, per l’uso della famiglia e per la vendita. Mia nonna saliva alla Badia periodicamente con l’asino per portare il cibo: a casa ogni settimana cuocevano il pane e una parte di questo veniva portata alla Badia. Nel viaggio di ritorno l’asino poteva essere caricato di castagne, anche se la maggior parte delle castagne veniva trasportata al mulino di Capraia per essere venduta. Abitualmente arrivavano a casa anche le trote, pescate in grande numero nel borro di Capraia. Nel borro erano numerosi anche i granchi. La nonna partiva con l’asino dalla Casetta, al bivio per Gello Biscardo e saliva per la vecchia strada toccando Segalari, Casavecchia e La Castellina. Da qui attraversava il Fosso Mallogo per arrivare al Passo della Crocina, Feraglia, Fonte Cavallari e Pontenano, fino al Selvone della Badia.  I contadini praticavano diverse attività, tra queste la pastorizia perché possedevano capre, pecore e anche qualche mucca. I formaggi prodotti alla Badia erano famosi per la loro bontà e qualità. Tagliavano pali di castagno per fare le bronche, utilizzate per le vigne nei casi dove non veniva usato il loppio (acero campestre). Questi pali venivano portati a Pontenano e da lì partivano con i carri per arrivare al fondovalle. I contadini della Badia erano considerati privilegiati perché avevano a disposizione una parte del “Selvone”, 3 grandi poderi e alcune case coloniche oggi dirute e riuscivano a ricavare molti prodotti di qualità, a differenza dei contadini della pianura; tanti anche gli alberi da frutto presenti, la mela nesta e la biancuccia primaticcia, alcune varietà di pere che si mantenevano per tutto l’inverno, ciliegie. Anche fragole e lamponi venivano raccolti e consumati dalla famiglia contadina, perché non c’era ancora l’abitudine alla vendita.

Negli anni successivi, con il passaggio dell’area al Demanio, si è iniziato a piantare pini, che gradualmente hanno soffocato castagni e faggi. Oggi nel Piano della Badia c’è una grande pineta, fino agli anni ’50 c’erano selve di castagni e si coltivava la patata, che veniva venduta in tutti i borghi della montagna. I patatai erano numerosi, ricavati dove il terreno boschivo era più pianeggiante. Qui i contadini dei Cassi toglievano le ginestre e coltivavano le patate. C’erano anche diversi alberi di cedro sparsi nella selva, forse portati dai Cassi nei decenni precedenti.

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