Anche se il Pasubio, con le due escursioni del 1993 e 1999 è entrato da tempo nella storia della nostra sezione CAI, la recente escursione di quest’anno fatta a vent’anni di distanza dall’ultima e a cent’anni dalla fine della Grande Guerra, ha reso ancora più forte il legame fra i nostri soci e quella montagna martoriata. Una montagna strategica che insieme al Grappa, ben visibile da Cima Palon, condizionò per tutta la durata bellica l’andamento della guerra, una montagna che come tante altre porta le ferite di quei combattimenti, a perenne ricordo e monito degli orrori della guerra e degli errori dell’uomo. Il Monte Pasubio, che separa le Piccole Dolomiti dagli altopiani di Folgaria e di Asiago, ha svolto un ruolo fondamentale nel corso della Grande Guerra e, oltre alla “Strada delle 52 Gallerie”, conserva altre strade, memorie e postazioni di eccezionale valore storico. Dopo Caporetto, insieme agli altipiani e al Grappa, il Pasubio rimase il pilastro settentrionale dell’schieramento italiano. Sicuramente se nel Pasubio le linee italiane avessero ceduto, la storia stessa d’Italia sarebbe stata diversa, forse anche i confini nazionali sarebbero stati diversi da quelli attuali; gran parte, se non quasi tutto, l’esercito italiano sarebbe rimasto circondato dentro una grande sacca che dalla laguna veneta arrivava fino alle Alpi slovene. La nuova linea di difesa poteva essere l’Adige, meglio il Po, nella peggiore dell’ipotesi l’Appennino, ma con quali forze? Il Pasubio è quindi, nella storia d’Italia un simbolo, una rappresentazione della volontà ferrea di tutti quei combattenti di non cedere un passo, perché erano consapevoli che stavano lottando, non tanto per una dinastia reale che con superficialità e faciloneria aveva portato la nazione alla guerra, ma sapevano di lottare soprattutto per la loro terra, di difendere le loro famiglie, le loro mogli, i loro figli che vivevano giù in basso nella Pianura Padana che sarebbe stata persa. Quelle parole, scritte su una pietra da un anonimo alpino, “Di qui non si passa” non potevano essere solo una frase retorica ma una necessità,
una verità alla quale i soldati italiani, tutti, alpini, fanti, artiglieri, genieri, bersaglieri… dovevano assolutamente far fede. A differenza del Monte Ortigara che non valeva niente dal punto di vista strategico militare, il Pasubio invece valeva qualsiasi sacrificio. Qui la storia ha sconvolto la montagna e la natura degli uomini; li ha costretti a vivere da cavernicoli, stipati dentro umide e buie gallerie, appiattiti nelle trincee costruite al sole bruciante d’estate e al gelo d’inverno. Sul Pasubio ogni buca prodotta da una bomba, ogni anfratto, ogni minimo riparo significava salvezza per il soldato, uomo –talpa alla ricerca continua di una tana per inventarsi un altro momento di vita. Fra le gobbe e le vallette disseminate di rocce taglienti biancheggianti, i soldati vivevano il dramma delle mine, degli assalti alla baionetta, delle attese allucinanti, della sete disperata, di un’altra razione abbondante di grappa per sbiadire gli orrori e la paura di un nuovo assalto. Come l’Ortigara e il Grappa, la conoscenza del Pasubio fa riflettere e certe volte diventa traumatica per noi che, per fortuna, non abbiamo passato certi momenti terribili, che però ci stimolano al valore del ricordo, della concordia e dell’armonia fra i popoli. Intendiamo la montagna un luogo di pace, un luogo che ci comunichi sensazioni di distacco dai problemi del mondo e di rilassamento psicologico e spirituale, di ritorno alla natura, un luogo di libertà e di rispetto e amore per i propri simili, per cui fra le cose più belle che colpiscono nel Pasubio, sono le migliaia di fiori alpini multicolori che nascono a primavera dentro le trincee e le buche prodotte dai colpi d’artiglieria. Quei fiori così numerosi, vivi, belli e colorati, a distanza di tempo sono la rivincita della vita sulla morte.
La Redazione