Per noi valdarnesi avere a confine una zona famosa, ricca e bella come oggi è il Chianti è motivo di soddisfazione, perché negli ultimi anni ne ha guadagnato in termini turistici e quindi economici anche la nostra vallata, soprattutto la mia zona, che è quella della provinciale Sette Ponti e le Balze. Lontani sono i tempi in cui il Valdarno era pieno di ciminiere e di lavoro e il Chianti rurale e semiabbandonato, attanagliato da una povertà atavica; quella povertà che spinse il sindaco di Castellina nel 1956, durante un congresso teso a promuovere lo sviluppo della zona in modo da creare lavoro e frenare l’emigrazione, a esortare l’On. Fanfani per far attraversare il Chianti dalla costruenda Autostrada del Sole. Ma nello studiare il territorio chiantigiano vengono più o meno in superficie considerazioni ancora non ben messe a fuoco, considerazioni alcune di natura prettamente culturale che sono dibattute tutt’oggi da studiosi in convegni e seminari, altre geo-economiche di rilievo che il tempo ha molto attenuato ma non lenite del tutto. Parlare di Chianti significa soprattutto parlare di vino, perché il vino prodotto in questa zona nel secolo passato e anche prima ha rappresentato per un lungo periodo (come dice lo scrittore grevigiano Carlo Baldini) tutto il vino italiano, questo con alcuni pro e molti contro. Rimane inoltre il problema aperto dei confini che non è stato mai chiarito, come è ancora dibattuta l’etimologia del toponimo Chianti che impegna spesso, in discussioni lunghe e affascinanti, studiosi da tutto il mondo. Che nel Chianti si producesse vino lo sapevano bene anche gli etruschi perché durante i recenti scavi sulla collina di Cetamura (Badia Coltibuono), fra i rifiuti sono stati trovati i resti di acini d’uva di quel periodo. Per i romani invece il Chianti era un territorio ostico e poco simpatico tanto che vi hanno lasciato rare testimonianze. Lo stesso Plinio che fece un classifica dei vini italiani, incluse il vino Setimo di Terracina, il Retico dell’Alto Adige, del Falerno, del Graviscano, dello Statomense… ma non del vino Chianti. Forse all’epoca romana questi terreni, oggi rinomati per i loro vini, erano coperti da boschi e si deve certamente alla cresciuta popolazione e alla cessazione dei vincoli feudali la coltivazione promiscua della vite insieme all’olivo. Da ricerche storiche, sembra che la prima volta in cui viene nominato il toponimo Chianti, è nell’anno 774 relativo alla “Plebes Sancti Pancratii in Clanto”, ma anche nel 790 in una pergamena della Badia di San Bartolomeo a Ripoli, appare il nome “Clanti”, nome che nei secoli successivi identificò geograficamente quel territorio che aveva confini precisi in direzione del Valdarno, ma controversi verso Firenze. Invece, i più antichi documenti, che sino ad oggi si conosca, relativi al commercio del “vino Chianti” e al suo appellativo come oggi è usato sono dell’inizio secolo XV, fino ad allora il vino che proveniva dal Chianti era chiamato a Firenze, genericamente “Vermiglio” quello rosso e “Trebbiano” quello bianco. In un documento datato 1583, il signor Bastiano de’ Rossi, detto “Nferigno”, segretario dell’Accademia della Crusca, afferma che a Omero “la balia, invece del latte gli fa poppar vino Chianti”, mentre nel 1596, Leonida Pindemonte, nobile veneto trapiantato a Firenze, dedica al granduca Ferdinando I de’ Medici una carta con le indicazioni della produzione di vino nel Chianti. Già nel “Bando sopra il commercio del vino del dì 18 Luglio 1716” che regolamenta e mette un confine alle zone di produzione vinicole, per quanto concerne il vino Chianti, di Pomino, di Carmignano e del Val d’Arno di Sopra, per il Chianti si parla da “Spedaluzzo fino a Greve, di lì a Pansano con tutta la podesteria di Radda” che include Gaiole e Castellina. Come succede sempre, gli ottimi risultati ottenuti dai primi coltivatori in Chianti della vite, indussero altri ad imitarli, e così i dolci rilievi sopra al fiume Greve e alla Pesa si coprirono di splendidi filari di viti e di ulivi in coltivazioni promiscue. Però fin dal tempo del Redi autore del famoso poema “Bacco in Toscana”, il vino Chianti aveva acquistato una certa risonanza, che non oltrepassava però i confini della Toscana. Nessuno tentò di vendere il vino Chianti oltre il confine del Granducato, finché non venne il Barone Bettino Ricasoli con i suoi tentativi di esportazione anche fuori Italia. Nel 1861 riunita in una sola famiglia la nostra nazione, alcuni viticultori chiantigiani fecero timidi tentativi di vendere il loro vino a Milano, a Torino e a Venezia, ma l’occasione propizia venne quando Firenze divenne capitale d’Italia nel 1865. Tutti coloro che per lavoro o per interesse vennero ad abitarvi o frequentavano la capitale, cominciarono a conoscere e decantare il vino Chianti facendolo conoscere a parenti e amici che abitavano in altre parti d’Italia. Il gradimento fu tale che, i produttori anche fuori Toscana che volevano pubblicizzare il loro vino, dovevano porvi il cartello “Chianti, e ciò fu fatto in maniera costante, tanto che di vino Chianti fu piena l’Italia intera. È vero che in altre località della Toscana furono fatte molte piantagioni adottando i vitigni chiantigiani, per cui era facile cadere in errore prendendo per Chianti vini di zone anche lontane dal territorio di produzione classica, ma un buon intenditore non avrebbe mai confuso con altri vini quello del Chianti, al quale il terreno e il clima somministrano quel soave sapore che si può imitare ma non uguagliare. Il fenomeno della grande celebrità del vino Chianti nel mondo ebbe inizio verso la fine del 1800 e molto più nei primi anni del 1900, il Barone Ricasoli aveva aperto la strada esportando il vino di Brolio e Meleto in Inghilterra e negli Stati Uniti. Da allora il vino Chianti divenne famoso e ricercato, e si arrivò perfino a dire che il Chianti era sinonimo di vino Italiano e perciò tutti ne potevano usare il nome. Paradossalmente oggi si può affermare che la conoscenza del vino Chianti si deve nel mondo a coloro che smerciavano vino che non era Chianti. È noto che dai porti marittimi italiani partivano navi cisterna piene di acqua e arrivavano nelle due Americhe piene di vino. Durante il viaggio, le cisterne si fermavano in acque libere e con anilina, zucchero, acido tartarico e gran quantità di polvere finissima di giaggiolo si faceva il “miracolo di Canaa, trasformando l’acqua in vino Chianti con caratteristico sapore e profumo di mammola per opera proprio del giaggiolo. Nel 1924 si costituì con atto notarile a Radda in Chianti un’associazione fra produttori di vino Chianti. Questo consorzio adottò un marchio di garanzia raffigurante un gallo nero in campo d’oro per cui diventerà nel dire comune il “Consorzio del Gallo Nero”. Il Gallo Nero era apparso la prima volta nei vessilli dell’antica Lega del Chianti, una di quelle Leghe del contado o Leghe dei popoli che la Repubblica di Firenze istituì a cavallo fra il XIII e il XIV secolo. Fra l’altro il simbolo del Gallo Nero fu affrescato da Giorgio Vasari sul soffitto del salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze, dove si può ancora oggi ammirare. Fra i 31 soci fondatori del consorzio del 1924 vi fu anche il marchese Bartolini-Baldelli di Pergine (Montozzi) che aveva delle proprietà a Volpaia. La “nomea” (celebrità), come la chiamavano bonariamente i nostri agricoltori dei quali molti analfabeti, esplose con virulenza nel 1932 con un decreto governativo che allargò moltissimo l’area di produzione del vino Chianti fra le proteste dei produttori locali. Il decreto fu chiamato “decreto inganna popoli” ed ebbe come risultato uno sfruttamento del prestigioso nome Chianti da parte di privati, amministrazioni pubbliche, enti ecclesiastici a tutto scapito dell’autentico territorio del Chianti, cioè di Castellina, Gaiole, Radda e parte del comune di Greve. Questa legge del 31 Luglio 1932 divise la Toscana in sette zone di produzione (inizialmente in otto, ma Montepulciano non volle aderire) del vino tipico del Chianti (Classico, Rufina, Colli Aretini, Colli Fiorentini, Pisani, Pistoiesi, Senesi), zone che comprendevano mezza Toscana e alcune neppure confinanti tra loro, da notare che per il Chianti Classico si fa riferimento al vino prodotto nel territorio delimitato dal Granduca Cosimo III nel 1716 con l’aggiunta di alcuni territori facenti parte dei comuni di Barberino Val d’Elsa, Castelnuovo Berardenga, Poggibonsi, San Casciano Val di Pesa e Tavarnelle Val di Pesa, in tutto 70.000 ettari di territorio. Molto probabilmente nel varare questa legge, si pensa che l’allargamento del territorio di produzione del vino Chianti sia dovuto al fatto di poter avere per il mercato più quantità di vino disponibile, perché proprio alla fine degli anni ’20 del secolo scorso ci fu penuria e mancanza di vino. Un ritorno inaspettato (dopo quello disastroso di fine secolo XIX) di epidemia di fillossera, distrusse gran parte delle viti che erano sopravvissute all’epidemia precedente e quindi nate dai maglioli e non innestate su viti americane, immuni a quella malattia. Il decreto del 1932 fra i produttori del vino Chianti ha lasciato dietro polemiche e contestazioni che ancora non si sono completamente sopite, anzi ogni tanto si riparla di “Chianti vero” e “Chianti inventato”. Sono stati fatti dei convegni di studio, ma mai è stato raggiunto alcun risultato anche perché in questi convegni è molto facile scivolare dagli aromi e profumi del vino ai fumi della politica.
Vannetto Vannini