CANTO PER TE

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Attento a te, Ulisse. Anche tu che sei il re degli inganni verrai ingannato, irretito dal canto delle sirene così come un giorno i troiani lo furono dal tuo cavallo di legno. Ricordi le danze quella notte? L’assedio era finito, il nemico dileguato all’orizzonte. I canti, tra i falò che illuminavano la notte di Troia, salivano ebbri di felicità e il vino dissetava le gole arse dal sangue e dall’odio. Ricordi i pianti delle spose che abbracciavano i loro uomini, grate agli dei che li avessero risparmiati? E le madri, che stringevano al petto i loro figli, sentivano di averli generati una volta ancora mentre la morte si allontanava da essi sulle navi achee. E tu aspettavi paziente in quel ventre di legno, che di lì a poco avrebbe partorito tutta la sua crudele ferocia, smanioso di uccidere quella gente già tramortita dalle mollezze del tuo subdolo inganno. Così gli disse Circe, lasciandolo andare al suo destino. Ulisse partì e non si voltò mai a guardarla, temendo che la sua bellezza ancora offuscasse il ricordo sempre più sbiadito della sua sposa e, ancora una volta, non avesse animo di lasciarla quella maga che per un anno tutta gli si era donata, schiava di un amore contro il quale nulla potevano i suoi sortilegi e le sue magie e che la rendeva disarmata e indifesa al suo cospetto. Circe era stata chiara: quando tutto sembrava andare per il verso giusto e una calma bonaccia avrebbe cullato la nave, come una madre amorosa il suo bambino, il mare avrebbero partorito il suo inganno dal ventre fluido delle onde sue. Partenope, con le sue sorelle Leucosia e Ligea, sapeva che la nave di Ulisse avrebbe solcato quelle acque così insidiosamente tranquille e lo stavano aspettando.

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Le piume dei loro corpi risplendevano come taglienti lame argentee sul riflesso accecante del mare, sul quale i raggi del sole sfrigolavano un’aurea di mille scintille dorate. E su quelle fattezze da uccello, dai teneri colli piumati si ergevano teste umane di donne dai volti bellissimi. Tali erano le Sirene, figlie del dio fluviale Acheloo. Demetra le aveva trasformate in quelle creature ibride qual erano per vendetta. Non aver impedito il rapimento, da parte del dio Ade, di sua figlia Persefone, della quale esse erano amiche. Di questo le accusava la dea, condannandole senza pietà. Ma cosa avrebbero potuto tre fanciulle contro l’amore disperato e disperante di un dio? Questo Demetra in cuor suo lo sapeva ma la sofferenza che impartiva agli altri affievoliva vagamente la sua. E questo bastava. Anche Ulisse sapeva. Ne parlava con Euriloco, compagno fidato di tante avventure, secondo in comando nonché cognato. Aveva, di sua sorella Penelope, gli stessi occhi scuri e profondi, gli stessi capelli d’ebano, la stessa bocca bella e severa, tumida di parole non dette. E, proprio come Penelope, aveva denti perfetti che perlacei risplendevano tra le valve delle labbra, rosse come corallo. Ulisse guardava sul volto di Euriloco gli anni che passavano e immaginava quello, altrettanto bello, della sua sposa Penelope, solcato dalle stesse rughe. La loro giovinezza era bruciata irrimediabilmente in quella lontananza. Al suo ritorno a Itaca avrebbe cercato la donna che quella mattina, giù al porto, lo aveva salutato piangendo mentre stringeva, sui seni morbidi, il piccolo Telemaco. Allignava già, forse, nel figlio, la stessa sete di conoscenza che bruciava in suo padre, perché guardava stranito le perle d’acqua che ora solcavano il volto diafano della madre, sicché allungò le piccole dita, ne bagnò i polpastrelli, se li portò alla bocca e li sentì salati, come d’acqua di mare. Era la prima volta che vedeva piangere sua madre. Ulisse, a Itaca, avrebbe cercato quella giovane regina che tante volte aveva riabbracciato nei suoi sogni e avrebbe trovato invece una donna, ancor bella, ma appesantita dagli anni, dal dolore e dall’attesa e forse, con terrore, sarebbe fuggito da lei cercando ancora la fresca bellezza di Circe. Euriloco ascoltava aggrottando la fronte come faceva Penelope quando una pena improvvisa le attraversava la mente, con un baluginio di lampo. Avrebbero dovuto legarlo all’albero maestro della nave e lasciarlo legato anche se li avesse supplicati di scioglierlo. Anzi, più veemente fosse stata la sua supplica e più avrebbero dovuto stringere i nodi che lo tenevano avvinto, fino a fargli sanguinare le caviglie e i polsi. Nessuna pietà per le sue grida. Nessuna pietà per il suo volto trasfigurato dal dolore. Nessuna pietà per le sue membra contorte come rami d’ulivo nello sforzo immane di divincolarsi. E tutti gli altri avrebbero dovuto tapparsi le orecchie con opercoli di cera. Nessun altro avrebbe dovuto ascoltare la voce delle Sirene che tessevano la loro tela di canto e di morte, aspettando che a loro venissero le prede, come agnelli sacrificali all’altare. Partenope non aveva mai visto Ulisse ma la sua fama di uomo bello, coraggioso, forte, lo precedeva ovunque, come un tappeto che la vita gli andava srotolando davanti per accoglierne i passi che tali mirabili orme avrebbero lasciato nella storia. E ne era segretamente innamorata. Quando la prua della nave comparve all’orizzonte, ella salì sullo scoglio più alto e il suo cuore, quando lo vide, ebbe un sussulto, nel suo petto d’uccello.

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Era legato all’albero maestro della nave e la sua fama gli rendeva giustizia perché mai essere umano più bello Partenope aveva veduto. Il suo corpo, forgiato al tornio di mille battaglie, aveva fattezze divine. I muscoli, scolpiti nell’ambra scura della sua carne, erano l’essenza stessa della perfezione. I lineamenti delicati del volto stridevano con la fierezza dello sguardo e gli occhi, profondi e terribili come il mare di notte, avevano una velata dolcezza. Pazza d’amore, Partenope intonò un soavissimo canto dai gorgheggi cristallini e Ulisse, nell’udirne la voce, prese a contorcersi come sulla pira di un rogo ardente mentre i suoi marinai, più esso si contorceva, più mettevano foga nei remi, sordi a ogni suo richiamo e a quelle voci che inutilmente li invocavano suadenti. Si era fatto legare e sicuramente aveva tappato le orecchie dei suoi uomini con tappi di morbida cera. Ma cosa mai poteva aspettarsi da uno la cui astuzia trasudava dal suo corpo possente, come un’aurea divina. Che l’aveva spuntata sui troiani, non fiacchi dal lungo assedio acheo. Che avrebbe avuto ragione di un gigante infido e crudele, e che, arrivato a Itaca, avrebbe vendicato la sua casa oltraggiata dalla superba arroganza dei proci, diffidando dello stesso amore della sua sposa. Così legato Ulisse non sarebbe mai venuto a lei e, come era destino, se il marinaio si fosse salvato, la sirena sarebbe morta al posto suo. Anche le sue sorelle, consce della loro sconfitta, ora si lasciavano scivolare sempre più in quel mare che lentamente le avvolgeva come un sudario. Solo Partenope ancora cantava e il suo canto era, per Ulisse, il suono più bello che essere umano avesse mai udito. La sua voce sembrava venire da profondità abissali. C’era, in essa, come un alitare di vento, un fragore di onde, un intreccio di mille voci e mille siderali silenzi. Il mistero stesso della vita era in quel canto, fonte che avrebbe dissetato finalmente tutte le arsure della conoscenza, bastava solo seguirlo, immergersi, sprofondare in esso. Quel vortice senza fine lo avrebbe portato lontano, oltre i confini dello spazio e del tempo, catapultandolo su un orizzonte di luce che mai più avrebbe conosciuto tenebra alcuna. Ma era legato e, per quanto implorasse i suoi uomini, essi rimanevano sordi alle sue grida. Mai Partenope, dalla melodiosa voce, aveva cantato così. Tutto l’amore suo si scioglieva in quel canto perché alla fine nemmeno una goccia rimanesse prigioniera in quel suo petto d’uccello. E mentre cominciava a scivolare lentamente in mare, pensava che era bello cantare per lui. Per lui e per lui soltanto. Le onde avrebbero portato il suo corpo esamine chissà dove e, attraverso esse, ella avrebbe continuato a cantare. Gli abitanti di quei luoghi avrebbero sentito echeggiare la sua voce nella risacca, che con indolente pigrizia avrebbe sospinto quelle onde sulla molle battigia, vibrante ancora di quel suo amore antico. L’avrebbero sentita quando i marosi si sarebbero avventati sugli scogli inermi, rabbiosi e ruggenti come fiere. L’avrebbero sentita nello sciabordio cadenzato delle barche all’ancora, in attesa dei pescatori come cani alla catena. E forse quelle genti avrebbero imparato ad amare il canto, così come ella lo aveva amato. Ma ora ben altro amore la possedeva. Guardava Ulisse, avvinto ancora da sicure corde, e se ne rallegrava perché mai si sarebbe perdonata la sua morte, sicché si sentiva felice mentre scivolava in quel grembo di morte. Moriva e cantava per lui. L’eco del suo canto riecheggiava ora tra le onde che si chiudevano sopra di lei con una soffice coltre di schiuma. Al neonato CORO CAI con un grande “AD MAIORA”

Pina Daniele Di Costanzo

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