Il Santuario della Madonna della Transumanza di Calleta (Castel Focognano), Santuario della Madonna delle Grazie
La transumanza è stata una pratica stagionale antichissima di spostamento greggi (soprattutto pecore e capre) verso la Maremma e ritorno, che ha interessato vaste zone della penisola dal periodo romano fino agli anni immediati del secondo dopoguerra. Monsignor Angelo Tafi, oltre che religioso anche storico della diocesi aretina, ha lasciato scritto che nel territorio di Arezzo e dintorni si possono riconoscere tracce della transumanza fin dalla preistoria per continuare poi in epoca etrusca e romana. Oltre che antica la transumanza è stata una attività molto complessa, legiferata già dalla notte dei tempi con precise disposizioni che prevedevano un complicato pagamento, parte all’andata e parte al ritorno, dei pascoli utilizzati e delle greggi in transito, sottoposte alla gabella come ogni altra merce.
Vi erano inoltre disposizioni che regolavano il tragitto, leggi indicanti anche le strade da percorrere in quanto le greggi dovevano muoversi al di fuori della viabilità normale, non solo per non intralciare i regolari traffici, ma anche per la ricerca di pascoli da sfruttare lungo il cammino. In base alle zone di provenienza erano indicati anche i ponti dove poteva essere attraversato l’Arno, ponti nei quali generalmente veniva fatta, per motivi fiscali, la conta (calla) degli animali; vi erano inoltre leggi regolanti i punti d’ingresso nei pascoli maremmani. Durante l’esistenza della Repubblica di Siena i ricavi ottenuti dalla concessione ai pastori il pascolo in Maremma, fu una delle fonti di guadagno più copiose, tanto che Siena si premunì di codificare tutto l’argomento già nell’anno 1353 e nel 1419 istituì la Dogana dei Paschi Maremmani che si estendeva per 110.000 ettari dalla valle del fiume Bruna al confine con lo Stato Pontificio, con la quale, oltre che riscuotere le gabelle, tutelava i pastori nei loro diritti, difendendoli da ladri e briganti. In effetti per motivi di convenienza e sicurezza, la Maremma fu in un certo modo “militarizzata”. Praticare la transumanza è stato molto oneroso per i ripetuti pagamenti e complicato a causa dei vincoli di passaggio su certi territori fino oltre la fine del secolo XVIII, quando finalmente il granduca Pietro Leopoldo favorì la libera circolazione delle merci, svincolando il territorio da ogni forma di servitù. L’azione del granduca soppresse i vincoli che ostacolavano il transito eliminando le servitù sulle bandite di caccia, diritti collettivi come quelli di pascolo, proprietà fondiarie di enti religiosi e comunità, usi civici e pascolo doganale. Inoltre, forzando molto sull’esproprio, il Granduca cercò di trasferire ai coltivatori diretti immense proprietà demaniali e di enti ecclesiastici. Nel libro “La civiltà della transumanza” edito da Arsia nel luglio 2008 si legge che Moreno Massaini, studioso e scrittore della transumanza, ha calcolato utilizzando i dati del fondo dei Paschi, che nel settembre 1590 partirono dal Casentino 76.912 fra pecore e capre, suddivise in 214 greggi, custodite da 700 persone, difese da circa 400 cani; furono inoltre usati 1100 fra muli e cavalli nel trasporto delle masserizie.
La transumanza è proseguita fino agli anni ’50 del secolo scorso e l’ultima legge fatta dallo Stato sull’argomento, è un Regio Decreto del 1923. Sempre dal libro “La civiltà della transumanza” si riscontra che un’indagine svolta nel 1950, in occasione della riforma fondiaria, censiva che si spostavano ancora dalla montagna verso il grossetano e l’orbetellano circa 20.000 capi fra pecore e capre; di questi quasi 10.000 provenivano dal Casentino. Con la riforma fondiaria realizzata in Maremma fu messo fine alla transumanza e gli ultimi pastori transumanti divennero assegnatari o acquirenti di terre in Maremma, dove fissarono stabilmente la loro residenza come fecero i Venturi della Rocca Ricciarda, grossi proprietari di greggi e familiari di Cesare Venturi, detto il Chiappino, soprannominato il Re del Pratomagno. Grandi fruitori dei pascoli maremmani sono state le greggi dei frati di Vallombrosa e di Camaldoli, oltre a numerosi privati del Pratomagno, sia valdarnese che casentinese.
Nel 1962, da studente, ho assistito personalmente ad una transumanza fatta su ferrovia alla stazione di Arezzo. In questa occasione ho visto scaricare centinaia di pecore da diversi appositi vagoni ferroviari del trenino del Casentino, per essere caricate su altrettanti vagoni del trenino della Val di Chiana dove a Chiusi sicuramente venivano trasferiti su qualche altro trenino diretto a Grosseto.
Il termine Transumanza è abbastanza recente e sembra sia apparso per la prima volta nella letteratura scientifica solo nel 1892. Deriva dal francese Transchumer (transumare), che a sua volta deriva dallo spagnolo Trashumar, parola composta da Tra (passaggio) e dal latino humus (terra). Quindi transumanza significa passaggio da una terra all’altra. La transumanza ha lasciato soprattutto in Maremma toponimi quali dogana(strada) e nel Casentino toponimi come Calla e Calleta e l’idronimo Calle, indicatori preziosi per chi voglia ricostruire gli antichi percorsi di uomini e greggi. Infatti il termine calla deriva dalla parola latina callis-is significante percorso per animali, quindi nel glossario della transumanza per calla si potevano intendere luoghi o passaggi dove venivano contati gli animali o anche più semplicemente solo l’operazione di conta. Molte volte il termine calla era seguito da un nome proprio di un luogo (Calla di Montemassi) e così si intendeva dove gli ufficiali della Dogana facevano i controlli fiscali sul numero degli animali.
Nei monti casentinesi, in quelli della Valtiberina, così come nel versante valdarnese del Pratomagno, l’agricoltura offriva scarse risorse a causa della natura geomorfologica e climatica di quelle zone, mentre la pastorizia forniva ottimi risultati, purché durante l’inverno le greggi avessero a disposizione pascoli in zone miti come la Maremma, pascoli che non era possibile avere nelle nostre montagne del Pratomagno, Casentino, Appennino. Le date di partenza per la Maremma erano i primi giorni di settembre fino a metà mese e tutta l’organizzazione faceva capo alla figura indiscussa del “vergaio”, una persona al vertice del comando molto pratica del percorso, delle procedure, dei rischi e imprevisti che si potevano incontrare. Si partiva a metà settembre per tornare poi a maggio facendo il percorso inverso.
La transumanza veniva praticata in tutto il territorio nazionale, sappiamo che le greggi dei pastori piemontesi, soprattutto brigaschi, transumavano in Costa Azzurra, nella costa ligure i pastori dell’entroterra ligure, tutta la Toscana, compresa la Garfagnana si riversava in Maremma, dove arrivavano greggi dalla Romagna, dal Montefeltro e da gran parte dell’Umbria. I pastori abruzzesi e molisani si portavano al mare in Puglia e qui è famoso quel canto bellissimo di Dannunzio composto nel 1903 che porta il titolo “Pastori”. Struggenti sono poi le strofe di quella poesia che inizia così: “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. /Ora in terra d’Abruzzo i miei pastori / lascian gli stazzi e vanno verso il mare:/scendono all’Adriatico selvaggio/ che verde è come i pascoli dei monti”.
Da questa breve esposizione si comprende che la transumanza è sempre stata un’operazione complessa, delicata, dolorosa per il distacco di così lungo tempo dalla famiglia, scomoda perché in genere si viveva lunghi mesi nelle capanne e in un certo senso pericolosa, sia per gli uomini che per le greggi. Si partiva in tanti ma non si sapeva se si tornava tutti, la malaria o le altre febbri, anche se inverno, erano sempre in agguato, come pure i pericoli contingenti del mestiere (ladri, furti di bestiame, delinquenti) e allora prima di partire, nel proprio intimo tutte le persone coinvolte si raccomandavano a Dio e soprattutto, come è tradizione della gente semplice e povera di montagna, alla Madonna.
La grande religiosità che ha sempre caratterizzato le popolazioni di montagna nei secoli scorsi è stata testimonianza della presenza di innumerevoli attestazioni di fede, quali piloni votivi, oratori, cappelle, santuari; edifici caratteristici appartenenti a epoche diverse e a stili costruttivi confacentesi alle consuetudini locali. Questi elementi del paesaggio , che sorgono per lo più isolati qui e là al limite dei boschi compaiono a quote e con frequenza diversa, assumendo poi in taluni luoghi, importanza e significato del tutto particolari come il Santuario della Madonna delle Grazie, conosciuto anche come Santuario della Madonna della Transumanza, nel nostro Casentino nei pressi di Calleta (m. 870), piccolo paese di montagna dove la pratica della transumanza ha lasciato segni inconfondibili nella tradizione e cultura paesana. Da Calleta le greggi percorrendo il lungo Poggio della Madonna si portavano al Poggio Rubiale (m.1275) sulla cresta del Col del Mulo e successivamente sul crinale del Pratomagno, sotto Poggio Masserecci. Da qui scendevano nel Valdarno lorese attraversando poi l’Arno al ponte Romito portandosi in Val d’Ambra, poi nel senese e infine nel Grossetano. Una parte, dopo aver attraversato il ponte Romito si portava invece nell’aretino, Val di Chiana, Valdorcia e grossetano. In Pratomagno vi erano greggi che scendevano anche dal versante reggellese attraversando l’Arno al ponte di Rignano per imboccare poi la via Maremmana, che attraverso il Passo dei Pecorai li portava nel Chianti, poi nel senese e infine nel Grossetano.
I pastori del nostro Pratomagno avevano percorsi un po’ diversi, attraversando l’Arno prima a ponte Romito, poi dal secolo XIX preferibilmente al ponte fra Terranuova e Montevarchi, raggiungendo il Chianti.
Intriso di profonda religiosità, il mondo dei pastori transumanti ha dato vita nel corso dei secoli a una serie di tradizioni, tanto che tutte le greggi che passavano da Calleta si fermavano al Santuario, affidandosi e raccomandandosi alla Madonna delle Grazie.
Nei due versanti del Pratomagno, come un po’ in tutto il mondo cristiano, la devozione a Maria si è affermata nella maniera più estesa, sentita e diffusa. Dalle sperdute chiesette di montagna, alle piccole chiese di campagna e alle grandi cattedrali delle città il culto mariano è sempre stato una costante fra la popolazione. Opere d’arte o semplici raffigurazioni, hanno fissato su tela o nei muri la figura di Maria come sposa, madre, madre dolente e come protettrice.
Ma è soprattutto nella devozione spontanea delle piccole chiesette che il culto della Madonna è affidato a molte immagini di poco pregio, ma da secoli tantissimo venerate dalla popolazione anche se poco conosciute fuori dall’ambito locale, come la Madonna della Transumanza che si trova nel piccolo Santuario nei pressi di Calleta.
Il Santuario si trova a quota 928 metri e dista circa 700 dal paese di Calleta. E’ un edificio sacro in muratura costituito da un unico ambiente. Non vi sono documenti storici attestanti l’anno di costruzione, ma una data incisa su una pietra della parete porta l’anno 1413, anche se per alcuni studiosi il vero anno di costruzione sarebbe molto posteriore a quello della data scolpita e potrebbe essere intorno all’ inizio XVII secolo. All’interno dell’edificio c’è un’immagine sacra, una piccola statua in terracotta invetriata poco più grande di una bambola e molto venerata a Calleta, San Martino, Carda e in tutta la montagna, anche in parte del versante valdarnese; immagine della Madonna con il Bambino che, come dice la leggenda, fu al centro di un fatto miracoloso che spinse la popolazione a costruire l’edificio sacro.
La statua della Madonna porta ancora appesi molti ex voto e tuttora viene invocata in momenti critici dai calletani rimasti in paese e da quelli trasferitisi altrove. La leggenda dice che l’immagine sacra fu rubata e portata a Badia a Tega, un abitato nella valle adiacente oltrepassato il Poggio di Vie Piane, ma la stessa Madonna con in braccio il Bambino volle ritornare nella chiesa originaria e partì da Badia a Tega con la neve valicando la montagna, camminando all’indietro per confondere le tracce. Quasi alla fine del viaggio si riposò sopra un sasso e così fu trovata la mattina da alcuni pastori che la riportarono nel Santuario. In prossimità di quel sasso da secoli è stata eretta una croce, detta Croce Nera, che ricorda l’evento. Mancando documenti storici si può anche pensare che originariamente in quel luogo vi sia stata solo una maestà, una maestà come quelle che si trovano spesso nella nostra montagna che servono anche da ricovero in caso di brutto tempo e che la chiesa sia stata costruita dopo il presunto miracolo. La chiesa, fin dalla costruzione poiché non poteva stare sempre aperta, fu dotata di due basse finestrelle sempre aperte e con inferriate in modo che i passanti potessero vedere in qualsiasi momento l’immagine sacra e avere così conforto; inoltre originariamente vi era un piccolo loggiato per permettere a boscaioli, carbonai, pastori e a tutti coloro che frequentavano la montagna, di venire a ripararsi in caso di cattivo tempo.
In quella zona durante il 1944 la guerra si fece sentire pesantemente, come riportato nel libro “Testimonianze di guerra nell’estate 1944 a Castel Focognano (Arezzo)” di Francesco Mattesini, edito nel 2020 da Soldiershop e, per ringraziare la Madonna per lo scampato pericolo, venne restaurato l’edificio sacro subito dopo il passaggio del fronte bellico, restauro che vide promotore il missionario cappuccino Padre Ildefonso Meucci da Calleta. Originale fu il metodo con cui furono trovati i soldi per il restauro (riportato nel libro “Santuari Toscani” di Rodolfo Malquori edito da Youcanprint nel 2013) in quanto il missionario tassò i propri paesani di £ 10 a persona, £ 100 per ogni mulo o cavallo, £ 50 per ogni somara, £ 20 per ogni maiale, £5 per ogni pecora o capra. Il restauro fu effettuato, il Santuario divenne più grande ma perse la propria semplicità montanara e soprattutto fu distrutto il loggiato; un altro restauro ebbe luogo intorno al 2010, senza poter però ricostruire il piccolo porticato. Gli abitanti della zona sono molto legati a quell’immagine e il giorno di Ferragosto e il sabato antecedente l’8 settembre (natività della Madonna) si tengono delle funzioni religiose con processione alle quali partecipa un gran numero di fedeli, soprattutto abitanti della zona trasferitisi altrove e che, rimasti devoti alla sacra immagine di quella Madonna, nell’occasione ritornano ai loro paesi di origine.
L’accesso alla chiesa avviene da due ingressi, posti entrambi nello stesso prospetto laterale. Esternamente le pareti sono in pietra a vista. La copertura interna della chiesa è formata da falde inclinate a capanna sostenute da capriate, travi e travetti in legno, mentre la copertura esterna del tetto è costituita da lastre (lose) di pietra, come era consuetudine un tempo in tutte le montagne.
Arrivando alla chiesetta santuario, sentiamo il piacere scaturito dal percorrere le antiche vie che hanno fatto la storia dei pastori che andavano e tornavano dalla Maremma, oltre alla soddisfazione di camminare in un ambiente montano fra i più belli della nostra montagna. Inoltre la consapevolezza di passare davanti a un luogo pieno di fede e di sacralità, dove non solo i pastori transumanti ma tutta la gente di montagna che conduceva un’esistenza fatta di duro lavoro, fatica e miseria, trovava energia, coraggio e speranza per il futuro e che questa dedizione popolare si è mantenuta ancora oggi, nonostante i cambiamenti del mondo e della vita moderna.
Vannetto Vannini