Testimonianze apotropaiche nella nostra montagna

Castelfranco/Pian di Scò Terre Alte Valdarno

La parola “ apotropaico” è un termine raro e difficile  derivante dal vocabolo  greco “apotrepein” che significa “allontanare”, ma allontanare  nel senso di tenere lontano il malocchio, gli spiriti cattivi o altre entità negative come il diavolo.

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Per raggiungere lo scopo, era tradizione nella nostra montagna, ma anche su tutto il crinale appenninico scolpire nella pietra, più o meno rozzamente ma con una certa arte,  delle teste di persona che poi venivano collocate sulle facciate delle case che dovevano proteggere, ma anche  su architravi, focolari, fontane , muri delle piazze. Nel nostro Pratomagno in genere venivano scolpite  soprattutto nella pietra locale arenaria ma anche in quella  chiamata “alberese” che  da bianca diventa poi scura e quindi accentuava ancora di più, con il trascorrere del tempo, l’ aspetto sgradevole. Non necessariamente tutte le testimonianze apotropaiche dovevano raffigurare  teste umane, potevano essere anche animali, soprattutto  gatti, gufi e civette; di certo tutte erano brutte, in genere  a bocca aperta  e alcune ghignanti,  con la lingua fuori e molto espressive,severe quasi minacciose proprio per mettere paura; erano come sentinelle di pietra che vigilavano sulla casa,sulla stalla, sul paese, sulle sorgenti…. Molto comune su tutto l’arco appenninico era la raffigurazione di Eolo, re dei venti, scolpito con la bocca un po’ aperta  e le guance gonfie nell’atto di soffiare un getto di aria che avrebbe fatto da barriera fra spiriti maligni e l’ingresso di casa. La raffigurazione del volto umano, anche se stilizzato, con proprietà o valenze scaramantiche ebbe diffusione durante l’epoca romanica, però è difficile, nella nostra montagna, dare una data a queste raffigurazioni che richiamano antiche superstizioni, le cui radici hanno origine sicuramente nel periodo pagano anche preromano, basti pensare alla testa di Gorgone etrusca. Alcuni studiosi ritengono questo modo di proteggere la casa, di origine carolingia e quanto meno longobarda, però è stato notato che, da noi, la presenza di queste testimonianze è riferibile soprattutto a edifici costruiti dal XV° al XIX° secolo, anche se, come era costume, nella costruzione di edifici venivano usate pietre o elementi presi da strutture murarie molto più antiche. Nella montagna tosco-emiliana queste facce vengono chiamate “marcolfe”. Ѐ interessante capire l’etmologia del termine “marcolfe” che è il femminile dell’antico nome germanico markulf, composto da mark, “confine” e wolf  “lupo”. Significa colei che custodisce i confini; ed in effetti le teste apotropaiche o markolfe, avevano proprio la funzione di “proteggere “ i confini della casa da pericoli esterni. Come riferimento è stato preso il   lupo o le lupe che, è risaputo, hanno il compito, l’abitudine,  di difendere il territorio di competenza. Altri studiosi hanno avanzato teorie più elaborate e difficili  chiamando in causa animali mitologici come Cerbero, facendo un collegamento  con il mondo degli inferi.

Molto spesso queste teste, ma conosciute anche come “maschere”, venivano collocate in prossimità della porta di accesso alla casa, perchè, anche nella nostra montagna, c’era  la credenza che sotto la soglia delle  case fossero stati confinati da Nostro Signore  gli spiriti maligni  per essere calpestati più volte il giorno; è per questo che, nel Pratomagno ma anche su tutto il crinale appenninico, c’era l’usanza di non calpestare, per non irritare queste entità, la soglia di casa quando si entrava all’interno della abitazione.

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     Cattura2Nel Pratomagno  le testimonianze apotropaiche, capolavori dell’arte povera contadina, sono presenti soprattutto nel versante casentinese (molto conosciuta è la testa di gatto, situata su una cantonata di una casa a Badia a Tega, (ma sono presenti anche a Talla, Castel Focognano, Raggiolo). Nel versante valdarnese si conosce una testimonianza del genere nell’ abitato di Quercioli , piccolo agglomerato di case a quota m. 467 sul vecchio sentiero che unisce San Michele a Pulicciano.  La testa in questione, scolpita in arenaria e quindi alquanto corrosa è quella della foto; particolare importante che ancora si nota bene, è la lingua fuori dalla bocca che sta a significare l’atto scaramantico di fare “ linguaccia o boccaccia “  motivo di spregio nei confronti delle entità negative; l’attuale collocazione nell’edificio secentesco penso  non sia  poi la collocazione originaria. Di questa testimonianza apotropaica si sono interessati anche alcuni storici della vallata con articoli in pubblicazioni dedicate alla conoscenza del Valdarno.

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   Sicuramente ciò che oggi è visibile nel nostro versante del Pratomagno ma anche in quello casentinese, non rappresenta che una parte di quello esistente in un passato recente: molti esemplari possono essere stati asportati, altri andati perduti quando l’abbandono dei rustici, dove erano stati collocati, ne ha causato la rovina e il crollo.

                                                                                                                    Testo e foto di Vannetto Vannini