Produzione e commercio del ghiaccio nella montagna del Pratomagno

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Con l’arrivo della stagione estiva, una volta si poneva il problema della conservazione di quei cibi e  derrate alimentari  che non potevano subire la salagione o l’affumicatura. I nostri contadini, da secoli,  avevano in parte risolto il problema con la costruzione nei pressi della casa colonica delle “grotte”. Le  grotte erano ambienti scavati sotto terra o all’interno  in alte pareti di terra (quelle scavate  dentro le  Balze erano le migliori) dove lo scambio termico con l’ambiente esterno era inesistente e inverno ed estate  vi si manteneva la stessa temperatura che non superava mai gli 8-9 °C, una temperatura che permetteva d’estate la conservazione di cibi o bevande  come l’”acquerello” detto anche” mezzovino”, una bevanda povera ma ampiamente utilizzata. Inoltre per la conservazione a lungo del grano, sostanza molto delicata che tendeva a fermentare, oltre ai granai venivano costruiti all’interno delle abitazioni    sotto il pavimento  e con apertura superiore sigillata, dei silos a forma di uovo dove il frumento veniva mantenuto bene a lungo. Questo tipo di contenitori-magazzini sono molto comuni nelle  vecchie  case  lungo la provinciale dei Sette Ponti e molti di loro sono veramente delle autentiche opere d’arte,  durante il passaggio del ultimo fronte bellico furono ampiamente usati per nascondere persone ricercate e  cose preziose. Durante il restauro di Palazzo di Arnolfo a San Giovanni Valdarno alla fine degli anni ’80 , un gran numero di questi antichissimi silos per contenere il grano furono trovati sotto il pavimento delle  logge del palazzo. Un ristorante nella zona delle Balze, ha visibilissimo nel pavimento della sala da pranzo uno di questi antichissimi contenitori di grano.

Ma per alcuni usi, oltre che per la conservazione dei cibi ma anche terapeutici  negli ospedali di allora, era indispensabile avere  disponibilità di  ghiaccio durante il periodo estivo e quindi  era sviluppata nella nostra montagna, come in tante altre montagne d’Italia ( in Toscana soprattutto nella montagna pistoiese), la conservazione fino all’estate del ghiaccio  che veniva prodotto d’inverno. Fin dall’antichità in tutta  Europa la neve e il ghiaccio hanno fatto parte, insieme alle castagne, al carbone e al legname, di quel numero di  merci i che  gli abitanti di montagna vendevano regolarmente in città. Questa necessità portò poi alla preparazione di precise tecniche di produzione e alla costruzione di edifici che presero il nome di “neviere o ghiacciaie”. Occorre fare una precisazione in quanto con il termine “ghiacciaia di accumolo” si faceva  riferimento a depositi di neve o ghiaccio  esistenti soprattutto in montagna  in luoghi idonei, si chiamava invece  “ghiacciaia di conservazione” un  locale    dove , tramite la  bassa temperatura interna provocata dalla presenza di  pezzi di ghiaccio, si mantenevano certi alimenti e certe medicine. Storicamente è famosa la ghiacciaia di conservazione del palazzo ducale di Urbino, della villa Pisani a Strà, quelle  in altre dimore di lusso  come le ville  medicee  a Firenze e dintorni, alle Cascine esiste ancora oggi , realizzata dall’architetto Manetti (1762-1817), la ghiacciaia piramidale destinata all’uso della corte fiorentina dei Lorena. Noi  In questo articolo si parla  però  solo della” ghiacciaia di accumolo “necessaria a mantenere il ghiaccio dall’inverno all’estate.

In Toscana durante il periodo mediceo che terminò con la morte di Gian Gastone nel 1737, il commercio della neve e del ghiaccio era rigidamente regolamentato con apposite licenze e appalti ai privati. Tutta la gestione del commercio del ghiaccio era affidata ad un ente statale chiamato “Azienda del Diaccio”, che controllava i rifornimenti e la manutenzione delle ghiacciaie. Con l’avvento in Toscana dei Lorena, la situazione cambiò in quanto  il Granduca Pietro Leopoldo nel 1776 liberalizzò il commercio di molti prodotti fra i quali anche il commercio del  ghiaccio, ma soprattutto fu consentito a chiunque di  conservare e vendere poi il ghiaccio che era stato messo da parte durante l’inverno. Tutto questo per la povera economia  montana fu una boccata di ossigeno che permise di sfruttare liberamente una risorsa naturale tipica della montagna che prima era vessata da vincoli  mercantilistici e dazzi.

Per avere il ghiaccio d’inverno vi erano due modi: uno era conservare in profonde buche  sotto terra e isolate con materiale idoneo il ghiaccio prodotto dal gelo invernale, l’altro era riempire queste buche  con  neve compattata, ricoprirle di terra in modo che non ci fosse  lo scambio termico con l’esterno; la neve compattata diventava ghiaccio  che veniva estratto, portato a valle e venduto durante l’estate. Sappiamo bene che a quota 1700 m sulla Pania della Croce nelle Alpi Apuane,  c’è il ” Passo degli uomini della neve”, cosi chiamato perché transitato  da quelle persone che d’inverno riponevano la neve nelle doline naturali e d’estate portavano coi muli  a valle il ghiaccio e di questi uomini, che partivano dalla Versilia o dalla Garfagnana, vi sono documenti che risalgono al 1560.

Nella nostra  montagna, i resti di una grande ghiacciaia si trovano nel centro del paese della Consuma e sempre nei pressi della Consuma, a Villa Podernovo ,  proprietà  fra le due guerre mondiali dei  Marchesi de Grolais, vi sono i resti di una grande ghiacciaia tronco conica che ha una profondità, fra fuori e entro terra, intorno ai 20 m. e un diametro di circa 6 metri interno ed è rimasta in uso fino all’immediato secondo dopoguerra. Vi venivano deposti con l’argano dei grossi cestoni ripieni di ghiaccio, e sempre con un argano venivano poi tirati fuori all’occorrenza e  questa è una grossa ghiacciaia costruita con tecniche  avanzate, fra l’altro si dice che le prime ghiacciaie a Firenze furono  disegnate dall’architetto Bernardo Buontalenti. Inoltre , questa ghiacciaia, si trova in quelli che un tempo erano i possedimenti dei Monaci dell’Abbazia di Vallombrosa che sono sempre stati grossi produttori di ghiaccio. I resti di un’altra grande ghiacciaia dei frati si trova in località “Massicaia”, vicino  a Vallombrosa sulla strada che porta in Secchietà. I frati di Vallombrosa ricavavano con diversi sistemi  il ghiaccio d’inverno ,  ma soprattutto dalla grande vasca nei pressi del convento, vasca che serviva anche  per l’allevamento delle trote e  come bottaccio  da cui partiva l’acqua incanalata che dava movimento agli ingranaggi, i quali mettevano in azione la sega nella sottostante segheria.

Nei pressi di Piandiscò, sulla strada che dal capoluogo va a Monti, ancora oggi esiste un luogo chiamato “Ghiacciaia”, dove veniva immagazzinata neve e ghiaccio per le necessità  estive.

Dopo la liberalizzazione del commercio del ghiaccio fatta dai Lorena,   i mugnai diventarono fra i più importanti produttori di ghiaccio , che  veniva prodotto  nel periodo novembre- marzo nel bottaccio  dove era raccolta l’acqua  indispensabile per il mulino e questo   non pregiudicava la normale attività di macinazione dell’opificio , ma diventò per svariati decenni una produzione indotta importante. Nell’arco di più notti freddissime, a seconda delle temperature, il ghiaccio poteva raggiungere uno spessore che variava da un minimo di 15 cm ad un massimo di 30 cm., spesso formando un’ unica lastra  che ricopriva tutto il deposito. La mattina presto  veniva fatta la rottura della lastra e il rimessaggio del ghiaccio nelle ghiacciaie di accumulo. La rottura della lastra  di ghiaccio non era un’ operazione semplice e dipendeva soprattutto dallo spessore del ghiaccio e dall’ampiezza della superficie del bottaccio, veniva seguito un metodo da tempo collaudato usufruendo di uno o più passaggi sicuri che collegavano  le rive del bottaccio e  l’utilizzo  di  appositi strumenti come la “palamina” che era    una vanga metallica appositamente realizzata con un manico lunghissimo e molto resistente, delle   “ accette da ghiaccio” per  incidere  in più punti consecutivi la lastra, i “raffi” che erano  lunghe e articolate pertiche di legno uncinate  che  agganciavano e indirizzavano i grossi pezzi di ghiaccio verso un punto prestabilito del bottaccio. Sicuramente nella nostra montagna, che fu un centro importante per la produzione del ghiaccio inviato poi nei grossi centri di fondovalle e all’ospedali, qualcuno di questi attrezzi sarà rimasto ancora in qualche vecchio mulino, perché questa attività continuò  fino agli anni ’30 del secolo scorso quando fu poi  prodotto il ghiaccio artificialmente (a San Giovanni Valdarno sorse prima della Seconda Grande Guerra la “fabbrica del ghiaccio” che ha prodotto fino agli anni ’60). Il ghiaccio, spezzato in grosse forme irregolari, veniva poi ridotto in blocchi abbastanza regolari e inviato su uno scivolo inclinato  di legno fino alla porta della ghiacciaia, all’interno della quale vi erano degli operatori chiamati “accomodini”, che con degli arpioni disponevano i blocchi all’interno  in modo da occupare il minor spazio possibile. Una volta che la ghiacciaia era piena, la superficie superiore del ghiaccio era  pressata  con piccoli blocchi di ghiaccio finemente frantumati o con neve compattata in modo da impedire all’aria di penetrare e quindi il tutto era ricoperto con uno spesso tappeto di foglie di castagno , faggio e paglia di segale, poi sopra  uno strato compatto di terra per fornire una adeguata  coibentazione termica.

Gran parte della  le ghiacciaie della nostra montagna, eccetto quella della Consuma,  Vallombrosa e  Piandiscò, erano caratterizzate da elementi comuni  frutto di una architettura spontanea e popolare, costruite senza particolari progettazioni  erano il frutto di conoscenze acquisite negli anni di produzione del ghiaccio. Venivano usati materiali locali come legna, pietre e paglia soprattutto di segale e anche nella nostra montagna, in prossimità dei mulini, alcune sappiamo dalla memoria storica, che  erano di dimensioni veramente notevoli. Da noi, eccetto che nella zona di Vallombrosa – Consuma, i resti delle  ghiacciaie  sono sparite completamente e ora, decedute le persone nate poco prima e poco dopo l’inizio del   secolo scorso, se ne è persa non solo l’ubicazione ma anche la memoria, una memoria che però è rimasta viva fino agli anni ’60-‘70 del Novecento.

                                                                                                                       Foto e testo di Vannetto Vannini

 

 

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